SardoLog Home

Villaggio minerario di Rosas
- VITE NASCOSTE -

Il minatore Il percorso
Qui li chiamiamo monti

Il minatore

Miniera di Rosas"E' del 1926!?"
"Si, ha capito bene, significa che ho 81 anni. Cos'è, non ci crede?" - mi dice Ziu Ginu Mei (l'anziano minatore che ho avuto la fortuna di incontrare ancora arzillo e vivace a Terreseo).
Il suo racconto incomincia pochi giorni dopo. Non ho difficoltà a ritrovare la sua piccola casa. E' risaputo che l'emozione e l'interesse rafforzano le facoltà mentali del ricordo. Sento infatti che il vissuto che Ziu Ginu mi trasmetterà sarà per me di forte emozione ed interesse.
Inizialmente ha un po' di diffidenza. E penso che ciò sia del tutto naturale, dati i tempi in cui viviamo. Che la nostra società sia violenta lo constatiamo anche da come si relegano gli anziani nella solitudine e l'abbandono e poi li si avvolge, tramite la televisione, di costanti messaggi di conflittualità e di paura
Ma mi accorgo subito che non è questo, o, meglio, non è solo questo. Forse a lui sembra molto strano che qualcuno possa interessarsi del suo lavoro di miniera, che una donna venga dalla città a cercare proprio lui e la sua vita. Ziu Ginu MeiCiò mi commuove, allora cerco subito di metterlo a proprio agio. Gli spiego che scrivo in internet e voglio trattare della miniera di Rosas, non nei soliti modi in cui la pubblicistica si occupa di miniere, vicende per lo più riguardanti gestioni, finanze, rendimenti e fallimenti. Bensì ne tratterò usando lo sguardo di chi la miniera l' ha vissuta direttamente e subita. Solo dopo queste mie parole si tranquillizza e si inorgoglisce ad intraprendere il suo prezioso racconto.

Partiva con altri cinque operai da Terreseo in bicicletta.
"Per tre anni e mezzo ho usato la bicicletta. Un' ora ad andare e un'ora a tornare con dei bei tratti in salita sia all'andata che al ritorno. Può solo immaginare la stanchezza. Così appena ho potuto ho preso la motocicletta".
"Ho lavorato nel sottosuolo di Rosas come perforatore, cioè mi avevano assunto per usare la perforatrice. Facevo turni di 8 ore."

Officine meccanicheMa per quante ore poteva capitare di lavorare ininterrottamente con la perforatrice?
"Innanzitutto usavo perforatrici ad aria compressa ed anche motopicchi. Perché il mio lavoro serviva sia a fare i fori per gli esplosivi e sia a sfondare pareti di roccia. A seconda del lavoro che si presentava, mi poteva capitare di usare perforatrice e motopicco anche per 6 ore continuate. Le pause si rubavano quando si poteva. Avevamo un sorvegliante bastardo che ci invitava scherzosamente a sostare ma, con accordi presi a nostra insaputa, faceva arrivare in quei momenti i capi che ci sanzionavano subito. I nostri stipendi allora venivano decurtati, così in modo facile facile grazie alla nostra ingenuità. Il lavoro era non solo faticoso ma anche disagiato. Mi ricordo ancora la sensazione di forte fastidio quando, con le braccia e il petto infuocato dalla continua tensione, mi cadeva addosso l'acqua fredda dalla perforatrice - perché le perforatrici mandavano acqua per limitare le polveri di roccia -. Questo succedeva quando dovevo forare in verticale, ad esempio quando dovevo ricavare dei fornelli. Ho lavorato con quella mansione dal 1956 (quindi all'età di 30 anni) fino al 1961, l'anno dell'incidente."
Quale incidente? Non credevo alle mie orecchie, già subito un ricordo drammatico.
Galleria "Si un' esplosione, ma voglio spiegarle tutto per bene. Nel '61 fui distaccato alla miniera di Monti Fracca in località Barrùa in territorio di Santadi (era gestita dalla stessa società per azioni di Rosas). Ma più che una miniera vera e propria era un semplice cantiere di esplorazione mineraria, cioè non c'era nessuna struttura esterna come a Rosas. Lei lo sa che il sottosuolo del nostro territorio è come un formicaio. C'è pieno di gallerie e pozzi, fatti per esplorare la redditività o meno dei giacimenti. E quindi, come dicevo, mi avevano spostato perché avevano bisogno di un bravo perforatore dato che avevano aperto lì un nuovo cantiere minerario. Dopo che mi successe l'incidente fui rimandato a Rosas , ma questa volta non più come perforatore in galleria, ma con mansioni all'esterno".
Ma quindi cosa successe a Monti Fracca?
"Lei ce l'ha presente cos'è un cantiere minerario? Glielo chiedo perché deve capire bene di cosa le sto parlando"
Forse pensa che i miei occhi sgranati dallo stupore e dall'interesse denotino una completa ignoranza in materia. Così non lo interrompo e gli lascio svolgere la linea del suo discorso stando molto più attenta che partecipe. Perché è vero, sono molto ignorante in materia e prima che immaginare devo sopratutto capire.
Fornello in securezza "Le gallerie di miniera sono a vari livelli. Dal piano dell'ingresso si diramano bracci laterali, pozzi per scendere a livelli inferiori, fornelli (fori in verticale per l'aerazione, muniti di scalette in ferro). Insomma una galleria è un vero cantiere con strumenti di lavoro diversi, solo che tutto avviene non all'aria e alla luce del sole ma sotto la terra con poca aria e poca luce di lampade. Il perforatore, come me, prepara i fori per le mine, poi ci sono gli addetti all'accensione delle micce, poi ci sono gli spalatori che raccolgono dopo l'esplosione il materiale con dei paioli che poi riversano nel carrello, poi il carrello viene spinto a mano sul binario per poi uscire all'esterno".
Non mi dice ancora dell'incidente.
"Glielo preparo un caffè? O preferisce bere qualcos'altro ?" Rispondo subito di no in modo un po' ansioso, voglio che continui ma non oso chiedergli ancora dell'incidente perché suppongo che la mia curiosità in proposito gli risulti dolorosa, o quanto meno, fastidiosa.
Ma, mantenendo i suoi modi gentili e didattici, dopo aver avuto da me una seconda rassicurazione sul non voler bere, continua.
"Tornando all'incidente, le sto parlando del 31 Agosto 1961, erano già le ore 15,20 e il nostro turno doveva smontare già dalle 15. Da fuori non si erano sentite le esplosioni delle micce che i compagni avrebbero già dovuto innescare. C'era qualcosa che non andava in quel silenzio e in quel ritardo. Decido così di andare a vedere.
La galleria da prima in linea retta poi seguiva i filoni di minerale incurvandosi a destra e poi leggermente a sinistra creando una camera terminale con una nicchia sulla destra. Ed era lì che avevamo il fronte di roccia da abbattere con le esplosioni programmate. Trovo il sorvegliante e un altro compagno minatore addetti all'accensione. Il sorvegliante mi dice che, dato che sono sceso è meglio che le accensioni le faccia io perché non si fida oggi dell'altro compagno.Vede che non sta bene e ha paura che si dimentichi di accendere magari una miccia e così lo fa uscire in superficie. Io eseguo così le sue disposizioni, dovevamo accendere in tutto 16 micce
".
Gli faccio qualche domanda perché i suoi termini tecnici non sono da me compresi nella raffigurazione che la mia mente via, via si fa dello svolgersi dei fatti. Lui così decide di prendere carta e penna. Mi disegna la parete rocciosa, una concavità con il suo punto centrale e le sue pareti laterali. Mi spiega che le perforazioni, che lui effettuava per il posizionamento delle cariche esplosive, dovevano essere profonde un metro.
"Ma è meglio che le spieghi ogni particolare per bene. Prima di tutto gli esplosivi. Erano delle polveri rivestite di carta, sembravano dei salsicciotti, i cosiddetti candelotti. Noi li prendevamo dal deposito della polveriera dove erano sistemati in cassette.
Polveriera Ne usavamo di due tipi: quelli denominati Gelatina che avevano un esplosivo più potente li usavamo quando dovevamo abbattere fronti di roccia dura, mentre l'altro tipo che si chiamava Dinamo, quando dovevamo trattare con roccia porosa. Anche i fori per il posizionamento dei candelotti e delle micce si facevano in modo diverso a seconda del tipo di roccia. Più ravvicinati, e a raggiera con quattro fori a vertici concentrici nel punto centrale del cono di roccia, se si trattava di roccia dura. Se invece si trattava di roccia più porosa, allora la disposizione si faceva più distanziata, quindi con un minore utilizzo di micce e candelotti.
Le ho parlato di micce ma non le ho spiegato cosa sono. Servivano per l'accensione delle polveri, dei candelotti, servivano quindi ad innescare l'esplosione.
Erano dei fili, dei tubicini rivestiti di una membrana impermeabile. Erano avvolte in bobine e noi ne tagliavamo di volta in volta il metraggio che ci serviva. All'interno di questo tubicino passava un filo di seta che, impregnato abbondantemente e uniformemente di nitrato di potassio polverizzato finemente, aveva la proprietà di trasportare l'accensione in modo rallentato fino alla cima detonante. Ma come si posizionavano le micce ? Ora glielo spiego. All'interno dei fori di roccia preparati si infilava un primo candelotto di polvere esplosiva. Si spingeva con un bastone di legno chiamato caricatore. Quando si doveva infilare il secondo candelotto, questo prima veniva forato al suo interno con un ago di legno in modo da poterci inserire in tutta lunghezza il filo di miccia. La cima della miccia a sua volta veniva prima incapsulata da una capsula detonante di alluminio che veniva stretta alla sua base con una pinza in modo che il filo di miccia non scappasse. Quindi, il fuoco trasportato dalla miccia innescava l'esplosione nel punto in cui il secondo candelotto toccava il primo. Ma c'era anche un terzo candelotto che col caricatore si spingeva nel foro. Anche questo terzo, come il primo, non aveva bisogno di miccia al suo interno, perché, come ho detto, la detonazione avveniva tra il primo e il secondo. Il filo di miccia che usciva dall'interno del secondo veniva fatto passare all'esterno del terzo fino a fuoriuscire per una decina di centimetri dal foro della roccia. Era questa parte terminale che veniva toccata da un accendino per innescare l'esplosione programmata.
L'esplosione con detonatore era indubbiamente più sicura per i minatori, giacché al posto delle micce venivano usati cavi elettrici che si riunivano poi in un unico fascio collegato ad un detonatore che comandava l'accensione a sicura distanza, all'esterno della galleria. Ma fu solo dopo gli anni 60.
Quindi erano state posizionate in tutto 16 micce, quattro che convergevano nel punto centrale del cono da abbattere e le altre 12 alternate a coprire tutta la superficie di roccia sia frontale che laterale.
Se si ricorda quello che le ho detto prima sul filo di seta all'interno della miccia, capisce che il minatore, a seconda della lunghezza del filo di miccia può sapere quanti minuti ha per allontanarsi in sicurezza dal luogo dell'esplosione.
Ora torniamo ai fatti.
I dieci centimetri di miccia che fuoriuscivano per l'accensione dai quattro fori concentrici venivano uniti insieme per un'unica accensione che avveniva quindi simultaneamente e la cui carica multipla procurava alla roccia un colpo potente. Quindi l'accensione che l'operaio faceva a queste quattro micce si faceva per prima e valeva come l'accensione n. 1. Già, perché si contava. Chi effettuava l'accensione doveva dire il numero. Quindi tornando a quel tragico giorno, dopo la prima accensione delle quattro micce centrali facemmo, insieme al sorvegliante, che si trovava più indietro sulla mia destra, altre cinque accensioni, ma nel momento in cui lui disse "sei" avvenne l'esplosione.
Io di quell'orribile momento ricordo di aver sentito come un potentissimo schiaffo all'orecchio destro.
Il risucchio d'aria era stato tremendo. Quando - non so quale istinto mi ha guidato perché la polvere e il buio erano fitti e a mala pena respiravo - sono riuscito a ripercorrere a carponi la galleria fino all'uscita, ho trovato tutti i miei compagni che piangevano. Poi mi hanno detto che avevo un aspetto spaventoso: con i capelli dritti, rigidi e gli occhi di fuori infuocati. Del sorvegliante poi si è trovato lo scempio dei suoi brandelli sul muro.
"
Io non posso che mettermi istintivamente le mani sugli occhi, perché dal suo così preciso racconto non solo ho immaginato ma ho proprio visto e sentito tutto quell'orrore. Lui, sia per riportare tutto su di un piano didattico e sia per sdrammatizzare in fretta e liberarmi da quell'angoscia, riprende :
"E lo sa perché è potuto succedere? Perché quel filo di seta, di cui le ho parlato prima all'interno della miccia, a volte poteva capitare che fosse rotto o sfilacciato. In quel caso lì l'accensione si innescava in modo ingovernabile.
Infatti, quando, uscito dall'ospedale, un responsabile della direzione della miniera mi interrogò sui fatti e mi chiese quale causa io ponessi dell'incidente, risposi subito che l'unica causa poteva essere quella, cioè la miccia difettosa. Ma lui non voleva sentire simili cose. Affermava che le micce erano state tutte controllate ed erano risultate a posto. Io rispondevo che si, potevo credere che avessero controllato tutte le micce rimanenti ma che non avrebbero mai potuto controllare la miccia ormai esplosa, che risultava quindi fuor di dubbio, dopo la tragedia avvenuta, seppure l'unica, l'unica disgraziatamente difettosa.
Ma le dico che quei tempi erano molto duri per l'operaio, anche dopo aver subito infortuni simili. Infatti non solo la direzione ebbe il coraggio di insistere sulla perfezione dei controlli e delle micce, ma non le dico le angherie che ho dovuto subire da parte del primario del reparto ospedaliero che non voleva riconoscermi il livello di sordità provocato dall'incidente
."
Allargando e sollevando le spalle a voler significare che voleva scrollarsi di dosso tutti quegli ostacoli che avevano pesato e ancora pesavano nei suoi ricordi, riprese :
Frantoio "Rientrato dopo un anno alla miniera di Rosas per mansioni da superficie la giornata di lavoro non è che fosse poi molto meglio dell'altra in galleria. Il rumore della frantumazione dei materiali estratti tra le barre di ferro dei frantoi e dei grandi mulini era talmente assordante e stronava a tal punto che era come se ti entrasse dentro e facesse parte di te così che in quel frastuono eri in grado di accorgerti di un battito di nocche su di un legno. Per non parlare poi dei veleni che si respiravano e si maneggiavano.

Vasche di flottazione dove i minerali allo stato naturale, cioè misti agli sterili, - frantumati e macinati finemente - venivano depositati con acqua e reagenti chimici e dove, con agitazione meccanica e aerazione, si produceva la separazione dei minerali utili, per lo più solfuri di zinco e di ferro.

Quando dovevo buttare i panetti di cianuro dai sacchi nelle vasche*, allora mi veniva un mal di stomaco che qualche volta sputavo sangue. Nelle celle dei reagenti si usava anche soda e olio di pino".

"Mba! Per fortuna sono arrivato alla mia età e non mi posso lamentare. Cerco di mantenermi in forma. Faccio ogni mattina quattro chilometri di camminata anche quando il tempo è brutto, senza allontanarmi dal paese, naturalmente. Faccio le flessioni…"
E con mia divertita sorpresa lo guardo accennarne i movimenti decisi e veloci - "Gli esercizi contro l'artrosi…"
"Che bello! - dico io - che bella speranza. Mi sembra che sia un ottimo modo per concludere oggi questa nostra chiacchierata".
La forza della sua lotta per la sopravvivenza, e soprattutto la forza della sua dignità lo ha fatto arrivare, dopo tutto quello che ha dovuto subire tra fatiche e dolori, fino a noi non senza una speranza e senza piegarsi alla facilità della rassegnazione. Grande, veramente grande questo piccolo uomo che ho davanti.
Ci salutiamo e lui vuole farci l'offerta del suo vino, ci porge una bottiglia della sua piccola produzione. Naturalmente lo ringrazio e stabiliamo un prossimo appuntamento. Ci farà da guida presso il villaggio minerario e i suoi racconti avranno così la loro scenografia. Andremo in una giornata piena di luce, col cielo azzurro.

Lidia Flore

  Galleria

Il percorso
Campagne

E' effettivamente una splendida mattina di primavera, colorata e profumata. In pochi chilometri si fa un viaggio tra due epoche. La strada prima e dopo Narcao non ricongiunge, come un tempo, piccoli agglomerati di casette rurali ma un continuum di grandi case, ville, residenze a più piani e multiterrazzate. Le campagne appaiono curate ma il loro lavorio non è più evidente. La sequenza delle grandi case dimostra che si è diffuso negli anni un bisogno di ostentare maggiore benessere e di conseguenza di cancellare il passato . Ma quando mi inoltro nella deviazione per Rosas mi accorgo subito di fare un viaggio indietro nel tempo, un tempo dove invece restano marcati per sempre i segni di un duro lavoro per le comunità locali. Duro lavoro per i più che hanno messo a rischio la propria vita per la semplice sussistenza. Per pochi, invece, pura ingegneria produttivistica e finanziaria dove ciò che hanno rischiato rappresentava solo i propri sogni di guadagno.

Ho già visto molti siti in Sardegna che hanno questa proprietà: sono nicchie del tempo, bolle che racchiudono dei respiri di storia, imprigionate lì a testimoniare, nel luogo e nelle vestigia, una narrazione interrotta, tristemente equivocata o peggio inascoltata. Certamente i sardi hanno scritto molto poco di sé e della loro storia, e, ciò che più guasta, il più delle volte lo hanno fatto tenendo uno sguardo distratto e distorto pur di compiacere le pregiudiziali aspettative che fuori dall'isola i benpensanti avevano della sua immagine e della sua storia. Ed è quindi una vera fortuna che vi siano ancora tanti luoghi che parlano da soli, pur nella loro parola interrotta, della loro vibrante realtà. Rosas, la miniera, il villaggio minerario è uno di questi luoghi.

Il primo incontro è con quattro lecci. Tre a sinistra della carreggiabile ed uno più avanti a destra solitario e maestoso. Sono relitti viventi di una foresta primigenia. Ziu Ginu Mei, il nostro piccolo, grande minatore è in auto con noi e proprio qui ha una specie di sussulto.
"Vedete qui? proprio qui su questo muro, quando io salivo in bicicletta o in moto per andare a Rosas incontravo sempre loro, i boscaioli, che aspettavano di essere presi. Poveretti che pena che mi facevano."
Le mie pronte domande e le sue esaurienti risposte mi hanno velocemente aperto un altro scenario diverso ma collaterale alla miniera. Uno scenario non insolito per molti siti minerari in Sardegna. Un singolo imprenditore minerario oppure una società di imprenditori che aveva ottenuto dallo stato la concessione mineraria diventava con questa, di fatto, anche padrona a tutti gli effetti di vastissime aree, per lo più forestali. Succedeva allora che questi imprenditori potevano trarre guadagni non solo dallo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo ma anche dagli appalti dei disboscamenti massicci ad opera di ditte di carbonai che giungevano dall'Italia o dall'estero. Quanta vasta parte di Sardegna in pochi decenni è stata così troppo facilmente derubata e devastata di dentro e di fuori! Minerali e legnami via, via, hanno attraversato i mari per andare in altri Stati ad accelerarne il cosiddetto sviluppo. Ecco cosa significa quando qualcuno dice "La Sardegna ha già pagato un prezzo alto" : Sacrifici di uomini, di intere comunità e degli stessi territori che patiscono ancora oggi i segni di quella vasta, spudorata rovina e ruberia coloniale.
Ma torniamo ai boscaioli che Ziu Ginu ricorda con tanta pena.
Il capo della ditta che pagava l'appalto della deforestazione era un toscano. Aveva fatto venire dalla Toscana un gruppo di giovani bisognosi e sprovveduti con l'illusione di buoni guadagni. Li sfruttava e li trattava come cani. Per tutto il giorno stavano sulle colline a segare fusti, poi venivano accompagnati con motocarri e fatti scendere a due chilometri dal villaggio minerario di Rosas dove dormivano in alloggiamenti che erano poco più che delle baracche. Il capo li teneva in semischiavitù. Erano dei disperati che non avevano neanche i soldi per tornarsene da dove erano venuti. Quando Ginu li incontrava la mattina presto, erano già scesi a piedi dalle loro baracche ed aspettavano in quel punto che i motocarri arrivassero per portarli sulle colline a segare i boschi.
A sinistra la linea sinuosa della strada si affianca ad un rio, il Riu Barisonis, il cui alveo, in questa parte bassa, è povero di vita, di verdi e folti fianchi. Capisco subito il perché. Risente delle tossiche scorie del lavaggio dei minerali che nei decenni produttivi si sono accumulate in discariche a cielo aperto : Vediamo presto, infatti, dossi di fanghi grigi dissecati ma che le piogge e il vento fanno sfarinare e scendere inesorabilmente verso il rio.

Piazzale
Laveria

Dopo pochi tornanti in salita i fianchi scistosi della valle si aprono e ci presentano il monumento della laveria.

Scendiamo dall'auto nel grande piazzale di pietra chiara che le dà risalto. Sopra le colonne di mattoni, unite da inferriate, le pareti sono in listati di legno da un bell'effetto cromatico.
Aggiriamo l'edificio sul suo fianco destro notando che questo rifacimento in legno è unito ad una originaria costruzione interamente in pietra (è la piccola laveria meccanica dei primi anni del 1900) edificata a ridosso di un fianco di roccia.
La parte che ora vediamo in legno è un rifacimento operato con fondi regionali ed europei. La ristrutturazione ha coinvolto non solo la laveria ma tutte le strutture sia produttive che abitative. Infatti il sito di Rosas comprende anche casette, uffici direzionali, ufficio postale, mensa e scuola. Prima di questo importante recupero tutto quanto dagli anni della dismissione (primi anni '80) era alla completa mercé della demolizione indiscriminata. Così la laveria, ampliata e ammodernata nei primi anni '50, fu ridotta a poche ferraglie in totale smantellamento.

Di fronte alla parte sinistra della laveria, separata da una piccola strada, c'è la cabina elettrica e, a sinistra di questa, la ristrutturazione di quelli che erano i locali della chimica, dove si analizzavano i campioni. Ziu Ginu dice che era un edificio ad un piano ma l'attuale rifacimento gliene ha sovrapposto un altro. Proseguiamo sulla breve strada che affianca il lato sinistro della laveria e lì, ad essa adiacenti stanno dei locali che servivano per le officine meccaniche.
Dai carelli al peso del minerale puroMa riscendiamo sul piazzale. E' vasto e così serviva indubbiamente a dare possibilità di manovra ai mezzi che vi circolavano. Sulla destra della strada, di fronte al piazzale e ai locali della chimica, c'era il locale di deposito del minerale puro.

Il minerale, infatti, dopo la sua ultima fase di lavorazione, usciva in carrelli dal primo piano della laveria. Su di un piccolo binario attraversava un ponte sulla strada e una leggera curva lo portava fino all'imbocco superiore dei locali del deposito. Lì si fermavano i carrelli per essere pesati e dopodiché si rovesciavano nei cumuli da dove il minerale veniva poi caricato dai minatori sui camion per il suo viaggio fino al porto dove poi sarebbe stato imbarcato.

La strada a seguirla porta al villaggio. Si sale e con qualche casetta a destra e qualcuna a sinistra si snoda tutto il nucleo abitativo.
La ristrutturazione operata ci consegna delle belle casette con intonaci di color ocra chiaro o con pietra a vista che si stagliano armonicamente fra i bruni delle pareti scistose delle colline e i verdi intensi della macchia : Mi piacciono le architravi di mattoni e i portalampada esterni a piatto rovesciato, come si usavano nei primi decenni del 900. Intuisco però che un tempo, queste graziose casette fossero invece poco più che delle baracche. La ristrutturazione senza dubbio ha voluto operare una sorta di pareggiamento democratico rendendo meno accentuato - come invece era negli anni di vita del villaggio minerario - quel divario tra habitat dei ceti dirigenziali e habitat dei minatori. La nostra guida infatti ce lo conferma.
Casetta Uffici e PosteGiù, in deviazione a destra rispetto all' impianto della laveria, abbiamo lasciato un'altra graziosa costruzione ai piedi della quale scorre il Riu Barisonis. E' a due piani con finestrelle ovali nella soffitta. Un tempo conteneva l' ufficio postale e altri servizi.

Ma Ziu Ginu ci tiene a farci notare che più a sinistra e un poco più su rispetto all'ufficio postale si notano delle scure rovine. "vedete lì? C'era la casa dell'usuraia" Dell'usuraia?- chiediamo
"Si, ci abitava una donna che prestava soldi"
Sorridiamo perché proprio lì, tra uffici e i servizi, era in una posizione di forte richiamo. Questo è un altro tassello che ci aiuta ad immaginarcela più da vicino la vita dei minatori.
Proseguendo sulla destra a costeggiare l'alveo del Riu Barisonis arriviamo ad un laghetto contornato da alti prati di composite, papaveri ed erba viperina che riflettevano sull'acqua i loro gialli, rossi e azzurri.
Deposito d'acquaEra questo il bacino di acqua pulita che alimentava il lavaggio dei metalli, la cui tubazione da lì partiva per arrivare al primo frantoio sotto la tramoggia che proseguendo il cammino a ritroso andremo a vedere.
Risaliamo sulla strada che, infatti, aggirando sulla destra della laveria, ci porta all'impianto della prima frantumazione. La ruggine della tramoggia e di ciò che resta del frantoio e della sua impalcatura è l'unica cosa finora che ci dimostri il logorio operato dal tempo, la bruttura del segno dell'abbandono. Ma mentre io ho lo sguardo fisso su quella ruggine, assorta ad immaginarmi la meccanica tra movimenti e rumore di quello che rappresentava la valvola cardiaca di tutto quel circuito minerario, Ziu Ginu è come preso da una particolare euforia. Va da una parte all'altra della strada con una miscela trattenuta di orgoglio e contentezza. Vuole farci vedere come sopra le nostre teste passasse un nastro trasportatore che portava il minerale da una prima frantumazione ai vasconi giù a sinistra entro la laveria dove subiva gli ulteriori trattamenti.
Qualche metro più su ci fermiamo nuovamente sulla strada. La luce di questa mattina primaverile è fortissima.
"Vede qua dove siamo? - e mi indica il punto di asfalto su cui stiamo sostando - Qui è incominciato tutto. - Io sgrano gli occhi e sto per chiedergli…., ma lui continua - Si qui mi hanno assunto, per strada. Mi hanno assunto in un modo in cui non si assumeva nessuno. Per essere assunto dovevi presentarti dal collocatore, che era una carogna, aveva una bottega e se non compravi da lui a libretto o non gli promettevi di diventare suo cliente non ti assumeva. Invece io quella mattina scendevo in bicicletta. Tornavo dal cantiere forestale dove avevo ritirato la paga.
Cantiere forestale? - dico, non ci capivo più niente, non mi aveva parlato in precedenza di taglialegna toscani dall'opposto versante collinare ?
"A quel tempo lavoravo in un cantiere di rimboschimento su territori demaniali con finanziamento regionale, era un lavoro a termine che consisteva per la mia squadra nel preparare le buche nel terreno per le piantine.
Non posso che bloccare il suo discorso perché devo dimostrargli la mia perplessità: ma come? Da una parte si distruggevano i boschi e dall'altra si impiantavano?
Lui china più volte il viso dando assenso alla mia sorpresa e poi mi spiega che nell'un caso si disbosca su proprietà privata e nell'altro si impianta su terreni demaniali. D'altronde perché sorprendersi tanto? E' infatti una politica sempre attuale : la Regione non ha strumenti per impedire distruzioni e scempi ma poi si deve procurare strumenti (è dalle nostre tasche poi che si finisce sempre per rastrellare le risorse) per risanare, bonificare.
Sicché - continua - da lì a poco sarei stato disoccupato, ed allora mi è venuto il coraggio scendendo quel pomeriggio in bicicletta di fermare quei due personaggi che davanti a me osservavano gli impianti e discutevano. Erano : il direttore Generale della società mineraria e l'ingegnere capo degli impianti di Rosas. Mi volete prendere come operaio ? Dissi così a bruciapelo. Loro due si guardarono con sorpresa, rivolgendosi con lo sguardo entrambi l'interrogazione se avessero bisogno di qualche maestranza, poi risposero "a noi serve un perforatore - e osservandomi bene - vuol fare il perforatore? " Io non me lo feci chiedere 2 volte e così fui assunto per la strada.
Un po' più avanti si sofferma ancora a farci notare una casa a due piani. Era la casa del guardiano della miniera. Al contrario di ciò che potremmo credere ci dice che quella casa ha nei suoi ricordi tanta allegria. Il perché ? Perché il guardiano aveva delle figlie in età di sbocciare e perciò in quella casa, quasi ogni mese (molto probabilmente in concomitanza al pagamento dei salari) si organizzavano balli. Era un grande divertimento, si suonava l'organetto e si ballava, si beveva. La cantina (così si chiamava lo spaccio) offriva rifornimento continuo.
Ecco quindi un elemento ricreativo per la comunità di minatori. Mi chiedevo, infatti, come fossero e se vi fossero dei momenti aggreganti fuori dall'orario di lavoro, oltre, ovviamente, gli episodi di vita sindacale.
Si, erano questi i momenti - ci conferma Ginu - e li rappresentava questa casa. Ma non tutti potevano parteciparvi. Ci andavano perlopiù i giovani, quelli che non avevano famiglia. Quelli come me, ad esempio, dopo il lavoro di miniera correvano a casa dalla propria famiglia dove spesso avevano altri lavori, un po' di campagna da lavorare e un po' di bestiame per procurare gli alimenti necessari alla famiglia.
Giunge così a parlarci di sua moglie. Si erano conosciuti nella miniera di Juenni, alcuni anni prima che lui fosse assunto a Rosas. Lei lì lavorava come cernitrice. Puliva la barite dal terriccio sotto il sole per tutte le ore e a qualsiasi tempo. Andava con altre ragazze a piedi per tutti quei chilometri di andata e ritorno. Prima di conoscere lui aveva già lavorato in un altro cantiere a Montega per 6 anni, a Juenni rimase 2 anni e poi dopo sposata non lavorò più.
Ma anche noi avevamo i nostri divertimenti - prosegue coi ricordi - Aspettavamo le feste come eventi che ci liberavano dalle fatiche, dai pensieri e ci davano tanta gioia e speranza. Quando le feste si avvicinavano, ognuno dava il meglio di sé e così era l'occasione per stare concordi, per divertirsi ed anche per mangiare meglio, un po' di più di quanto si poteva mangiare nei giorni normali. Oggi questo non c'è più. Non si aspetta nessuna festa, nessun evento che almeno per un giorno ci faccia sentire più liberi e felici. Era l'attesa piena di speranza che ci appagava ed oggi invece non c'è più nessuna attesa, tutto è uguale e tutto è così povero di speranza. Non le sembra che sia questo che riveli l'infelicità che avvolge questi nostri tempi ?
Assentiamo muti. Il sole comincia ad essere pesante sulle nostre teste e la saggezza, la lucidità, il cuore di questo piccolo uomo, nostra guida straordinaria, ci aprono continue finestre, riflessioni profonde che le nostre parole non riescono ad abbracciare se non in un'estasi di commossa fratellanza.
Proseguiamo in salita ed incontriamo la polveriera, il magazzino degli esplosivi scavato nella roccia con le sue nicchie a parete. Poco più avanti l'ingresso alla galleria di estrazione che è protetto da inferriate e si affaccia su di un ampio piazzale di accumulo del minerale estratto. Da qui veniva caricato sui mezzi e versato nell'impianto di prima frantumazione sulla cui ruggine ci siamo prima soffermati. Poi ci imbattiamo in un fornello, un foro che dal piano del terreno scende nella sua paurosa profondità, naturalmente è messo in sicurezza da robusti graticci di alluminio.

Saliamo ancora più su e la strada si divide. Prendiamo quella di sinistra che ci conduce ad un lungo piazzale a terrazzo ricavato da un terrapieno sul fianco di una collina. C'è un'ampia costruzione ad elle a due piani che incornicia il piazzale.
Scuola e mensaLa parte a noi frontale era la scuola e sul suo lato destro si innestava l'edificio più lungo che comprendeva a piano terra le mense e al piano superiore stanze dove trovavano alloggio quadri dirigenziali, impiegati e ospiti di passaggio della miniera. E' facile immaginare maestranze di ragazze con funzioni da inservienti che si alternavano tra la gestione delle mense e la pulizia delle camere, ed è facile immaginare i bambini nel loro piccolo sciame colorito all'entrata e all'uscita della scuola. Di ragazze inservienti e di bambini mi pare sia ancora racchiuso l'eco entro quei muri rosati e quelle finestre. Forse perché uniche anime ad aver vissuto non di passaggio quel luogo ma col piegarsi quotidiano, perenne e incisivo della propria energia vitale.
Ritorniamo indietro per il bivio e prendiamo la deviazione di destra che avevamo lasciato prima. Incontriamo delle casette in rovina con il tetto graziosamente colonizzato da rossi papaveri.

Lidia Flore

Vecchie case

  Galleria

Qui li chiamiamo monti

Casa di pastoriSbirciando in alto, alla fine dell'ultimo tornante vediamo una casa colore cielo chiaro col le finestre azzurre, incorniciata da folte composite gialle.
Dei cani ci hanno visto da lassù perché subito prende il via il loro latrare. Niente paura, si tratta di buoni e simpatici cani da caccia, li vediamo, stanno solo avvisando i padroni della casa.
"Ma si, lì ci abitava una famiglia di pastori di Desulo, bravissime e simpatiche persone. Chissà se si ricorderanno di me ? Esclama Ziu Ginu.
Poi ci fa guardare ancora più in alto a destra "Vedete quella grande casa che si vedeva anche da giù quando ci siamo fermati vicino al laghetto? Quella è la villa della direzione della miniera.
villa delle DirezioneI direttori delle miniere facevano edificare la propria casa sempre a più elevate altitudini, per due motivi: per stare lontani dalla insalubrità dei luoghi minerari (dove l'acqua era colonia di zanzare e dove polveri e rumori erano indubbiamente nocivi) e per avere una visuale di dominanza su tutto. Troverete in molti altri cantieri minerari queste case dei direttori che rispecchiano queste funzioni.
"

Una donna anziana sorridente si muove dal cortile della casetta color cielo chiaro e ci viene incontro . Con molta facilità entriamo in contatto cordiale e diretto. Ci presentiamo. Lei insieme al marito e i figli hanno vissuto di pastorizia da parecchi anni. Ma non sono originari del luogo, sono venuti subito dopo sposati da Desulo. Io sono piacevolmente sorpresa e la curiosità ormai è mia padrona. Lei si protende verso il piccolo giardino terrazzato, a destra dell'uscio di casa, in cerca del marito. Vedo che risale un grazioso vecchietto con sciarpa e berretto. Saluta noi e la nostra guida, dopo qualche secondo dimostra di ricordarsi di lui. Ha in mano un piccolo stelo di rosa con bocciolo. Arrivato lentamente sul piccolo cortile d'ingresso, dopo aver abbracciato Ginu, me lo porge. Io sono esterrefatta da tanta squisita gentilezza e dico qualcosa che incornicia di un grande valore quel suo gesto. Ma lui, con un sorrisino sotto i baffi e facendo spallucce si giustifica: "Mbe, ho sentito dalle voci che avevamo un'ospite femminile, e allora…"
Io : "Lei mi dà una rosa e qui siamo a…"
Lui : "Monti Rosas" - ridiamo.
"Ma perché si chiama così, qual'è l'origine del nome ?" - chiedo
Lui : " Ma, i nomi di ogni cosa qui, sia monti, acque, valli, sono nomi molto antichi. Vai e cerca da dove viene la loro origine. Non si potrà mai sapere con certezza."
Io : "E comunque abbiamo anche noi il nostro Monte Rosa, anche se in dimensione ridotta".

Qui li chamiamo monti

Ammiro estasiata il panorama che ho intorno. Colline o basse montagne, lei, la moglie Giovanna, con un sorriso si schermisce: "Qui li chiamiamo monti." ma dal suo sguardo e dal come me ne indica i nomi mi accorgo che lei sta abbracciando con tanto amore e grande rispetto quei crinali. Monti Nieddu, Monti Orri, S'ega Fogus. A me potranno sembrare delle irte creste che chiudono a corona il colle sulla cui cima sta appollaiata la loro casa, ma a lei indubbiamente quei piccoli monti rappresentano la dominante compagnia alla sua esistenza per tanti anni. Non mi è difficile immaginarla dalla finestra piccola azzurra, che verso le colline si affaccia, scrutare i loro fianchi nelle sue attese brumose ed uscire fuori ogni tanto a percepire da quelle vie del ritorno il latrare festoso dei cani, la musica del gregge, la voce dei suoi uomini.
E' straordinario, mi soffermo quasi incredula al miracolo che ho davanti: una donna felice che ha vissuto più di cinquant'anni in questo luogo sperduto tra i monti, come qui li chiamiamo, in quasi solitudine, giacché i suoi uomini, marito e figli, per tanti anni hanno seguito le greggi. Il villaggio minerario, a qualche tornante della strada più in giù della sua casa, da circa trent' anni è disabitato ed in totale abbandono.
Perché sono portata a dire che è felice ?
Perché, oltre che il sorriso ed il rispetto amorevole con cui si pone, capisco che ha dentro, radicate nell'animo, delle condizioni basilari per la felicità. Aldilà della modestia di tutto ciò che la riguarda e che le sta intorno materialmente, lei ha questo dono : è pronta a tesaurizzare ogni cosa, a captare la preziosità intima e impercettibile di moltissime cose che scorrono nella sua vita come un miracolo continuo. Non lo capisco solo da come mi racconta le sue vicende ma da cosa mi racconta.
Alle pareti della stanza d'ingresso della sua casa, che funge anche da cucina e vano conviviale, ha appeso le tangibili prove di una sua preziosa, fruttuosa amicizia. Negli anni in cui il villaggio minerario raccoglieva una piccola comunità, portando un po' di vita movimentata in quei tornanti (oltre al traffico minerario, c'erano bambini con la relativa scuola, c'era l'ufficio postale) aveva conosciuto una donna sua coetanea che come lei era di origini barbaricine e montanare, la quale aveva appreso l'arte della cestineria, dell'intreccio vegetale (un'arte a dire il vero un po' lontana dalle montagne). Si sono passate questa maestria con amore e passione attraverso tramandi che avevano origini dalle donne abitatrici dei piani e degli alvei acquatici e l'avevano coltivata perfezionando e scambiandosi le loro sperimentazioni nei disegni, nelle dimensioni, nei colori.

Il piccolo cestino dal bordo trinato e il disegno di uccelletti sui rami è adatto per contenere dolci, una funzione più spiccatamente estetica la svolge un cesto più grande con il disegno benaugurante del ballo tondo e l'effetto cromatico dell'alternanza dei colori nel vestiario delle sagome che si tengono per mano. Mi dà in mano questi piccoli cesti per vedere da vicino la perfezione del lavoro: una spirale di steli di giunco - avvolti da rafie e con rafie cuciti impercettibilmente e indissolubilmente - che solleva dolcemente la sua circonferenza a modo di vassoio ceramico.Come il vassoio ceramico contiene il suo decoro fatto di disegni prodotti dall'alternanza in equilibrio matematico di rafie colorate.

Cestino

Ci tiene a dirmi che sono quasi indistruttibili. "Sapessi quante volte sono stati lavati con acqua e spazzola!" Spingendomi quindi a riflettere sulla preziosità intrinseca di questi oggetti comprensiva di più ampie potenzialità oltre che della loro estetica.
La sua cara amica andò via un giorno. Suo marito era minatore e la miniera fu chiusa. Tornarono al loro paese barbaricino. Ma a lei restava ancora caldo, dopo tanti anni, il ricordo della sua solidarietà e della sua gioia di vivere. E di quel suo dono, la lavorazione del giunco, assaporato in tanti pomeriggi alla luce della piccola finestra da cui, sollevando il capo poteva non perdere di vista i suoi "qui li chiamiamo monti".
Il marito ha terminato il lavoro nell'orto e arriva con la sua capra Nené. Dice che è il suo angelo custode oppure semplicemente una femmina gelosa perché lo segue ovunque. Infatti, quando l'uomo entra in casa e si accomoda vicino al camino, lei non resiste. Spinge la porta col muso e, riuscita ad aprirla, sporge dentro la testa e lo guarda dritto negli occhi quasi a dirgli: "Mbé! Che ci fai lì dentro? Muoviti ad uscire fuori!"
Lui è delizioso quanto la moglie: animo buono, ospitalità e ironia. Risponde alle mie domande e poi sollecita la moglie ad offrirci qualcosa. Si propende per un po' di squisito yogurt, o joddu come si dice in sardo, è di capra - lui ci tiene a precisare -, della sua capra Nené che, anche se non più giovane, si rende ancora utile. Entrambi sono contenti di regalarci ritagli della loro vita. Lui ci racconta delle vicissitudini tragiche e comiche della guerra (la seconda grande guerra) a cui ha partecipato su vari fronti. Ultimo quello marino che lo ha visto steso a terra sul ponte di una nave, con la febbre altissima, con un mare agitato e con l'allarme continuo dei siluri di un sottomarino nemico. Insomma, in uno stato che più dannato non c'è, ha fatto il tremendo giuramento di non rivedere più il mare. Ed infatti, sceso da quella nave salvo anche se non sano, si determinò a cercarsi un posto il più possibile lontano dal mare.
Qui tra questi - qui li chiamiamo monti - ha potuto passare cinquant'anni tranquillo col suo lavoro di pastore. Con le sue piccole colture ha potuto crescere la sua numerosa famiglia.
Mentre lui racconta, lei va e viene dalle altre stanze per mostrarci altri suoi lavori di pura maestria femminile : pezzi del costume di Desulo, il suo paese : la cuffia, poi il corpetto, ed anche la gonna. Lei li ricama e poi li invia ad una sorella che sta proprio a Desulo e che li confeziona per i costumi e che per questo di quando in quando richiede il suo aiuto.
Lei lo fa volentieri sia perché così si tiene occupata esercitando le sue facoltà e sia perché così si sente, anche se così lontana, legata e partecipe alla vita del suo paese.

Costume di Desulo

Il costume di Desulo è tra le cose più belle che caratterizzano le produzioni della cultura sarda. La luce che quelle stoffe e quei ricami emanano si percepisce a chilometri di distanza. Certamente una donna nei territori di Desulo non passava inosservata, non potrebbe certamente nascondersi mai con siffatte vesti. Il rosso dell'orbace, l'azzurro intenso del raso, l'oro fiammato dei fili di ricamo.

Molti Desulesi sono presenti nel territorio Sulcitano. Si pensi che nella città di Iglesias sono ben 4000 e i residenti attuali a Desulo sono invece 2900. Dal ripopolamento seguito alla fine del dominio spagnolo, molti scendevano nei campidani per la transumanza e in ricorrenti periodi di depressione demografica finivano poi per impossessarsi di terreni incolti e incustoditi del Sulcis ma che si rivelavano molto utili o per fertilità o per il legnatico di boschi o per l' allevamento. E' così che in ogni paese del Sulcis numerose sono le famiglie le cui origini riportano a Desulo.

Lei i pezzi della sua vita me li mostra così con le sue opere. E' sorprendente come già poco lontano da qui si viva in un epoca in cui tutto è già dato e allo stesso tempo tutto è gia perduto. Nella nostra quotidianità affrettata difficilmente realizziamo da noi qualcosa in grado di rappresentarci, di creare una nostra immagine nel tempo. Lei invece, filo dopo filo, punto dopo punto crea da sé la sua luce, la sua splendida veste. Ma pur abbracciando con gioia questa sorprendente realtà c'è un qualcosa che mi rattrista e sgomenta: questa sua straordinarietà è qui chiusa tra questi piccoli monti, muti, dove la vita, quella poca che c'è stata, è andata via e la sua quieta operosità non comunica più il suo valore, la sua importante memoria a nessuno. Mi ritorna l'immagine della ruggine sulla tramoggia, su cui mi ero soffermata, perché sento ora che la preziosità di queste vite nascoste e perciò sprecate sia il sintomo di un'altra ancor più grave corrosione : quella sulle coscienze di comunità sociali che vogliono voltare pagina senza mai dettare niente di proprio sulla nuova pagina. Il loro voler vivere ancora lì, nonostante tutto (nonostante la lontananza dei figli che hanno creato altre loro famiglie, nonostante l'abbandono della miniera), nonostante la solitudine, unici superstiti di un epopea mineraria, me li fa radicare nel cuore. La loro non è testardaggine bensì straordinario potere della vera dignità. Sento che dobbiamo noi avvicinarci con umiltà e amore a loro e non il contrario. Sento che riprendere la tessitura della loro esistenza ci fornirebbe un filtro efficace per separare tutto ciò che oggi è umano degrado da ciò che invece è depositario di umani valori.
Ci abbracciamo salutandoci. So che per loro sarò sempre ospite gradita. So che avrò sempre a cuore la loro serenità.

StradaRiscendiamo con la nostra guida la strada che ci riporterà alla laveria e quindi all'automobile. Siamo un po' frastornati dalle emozioni ricevute e da lì, dall'alto scopriamo la bellezza della valle del Riu Barisonis: i colori saturi dei fiori che si protendono ai lati dei sentieri, il brillio dei verdi della macchia. Il nostro respiro sembra voglia dilatarsi a tal punto da sussultare.

Giù nel piazzale Ziu Ginu vuole ancora sbirciare tra i pilastri della laveria e lasciare attivare i ricordi, ma nota con un po' di disappunto che il recupero e la ristrutturazione in alcuni casi non sono stati fedeli. Io invece prima di entrare in macchina mi soffermo sul piazzale a pensare agli operai di Rosas che vedevano andar via sui camion il prodotto del loro sacrificio e forse si domandavano: "dove parte tutto questo? E laddove finirà il suo viaggio, si percepirà il nostro lavoro, il contributo della nostra totale esistenza ?"
Questo forse speravano e questo ora io chiedo per loro. Perché le loro vite da nascoste riprendano la direzione del viaggio nelle nostre coscienze.

Lidia Flore

Foto di Gabriele Vargiu e Lidia Flore
Un ringraziamento particolare :
- al Sig. Gino Mei - straordinario minatore in pensione - per il prezioso contributo della sua memoria;
- all'Ing. Mario Cabriolu e a Robertina Littarru per la loro supervisione e il loro sostegno.
Dedico questo lavoro a tutti coloro - uomini e donne - che hanno sofferto l'esperienza del duro lavoro minerario
e a tutti quei sardi che non hanno ancora scritto della loro esperienza di vita e dovrebbero invece farlo.

Up Tutti i diritti riservati
 SardoLog
Via Leonardo da Vinci 32 - 09013 Carbonia - Italia
Home