Il minatore | Il percorso |
Qui li chiamiamo monti |
"E'
del 1926!?" Partiva
con altri cinque operai da Terreseo in bicicletta. Ma
per quante ore poteva capitare di lavorare ininterrottamente con la perforatrice?
Quando dovevo buttare i panetti di cianuro dai sacchi nelle vasche*, allora mi veniva un mal di stomaco che qualche volta sputavo sangue. Nelle celle dei reagenti si usava anche soda e olio di pino". "Mba!
Per fortuna sono arrivato alla mia età e non mi posso lamentare. Cerco
di mantenermi in forma. Faccio ogni mattina quattro chilometri di camminata
anche quando il tempo è brutto, senza allontanarmi dal paese, naturalmente.
Faccio le flessioni…" Lidia Flore |
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E' effettivamente una splendida mattina di primavera, colorata e profumata. In pochi chilometri si fa un viaggio tra due epoche. La strada prima e dopo Narcao non ricongiunge, come un tempo, piccoli agglomerati di casette rurali ma un continuum di grandi case, ville, residenze a più piani e multiterrazzate. Le campagne appaiono curate ma il loro lavorio non è più evidente. La sequenza delle grandi case dimostra che si è diffuso negli anni un bisogno di ostentare maggiore benessere e di conseguenza di cancellare il passato . Ma quando mi inoltro nella deviazione per Rosas mi accorgo subito di fare un viaggio indietro nel tempo, un tempo dove invece restano marcati per sempre i segni di un duro lavoro per le comunità locali. Duro lavoro per i più che hanno messo a rischio la propria vita per la semplice sussistenza. Per pochi, invece, pura ingegneria produttivistica e finanziaria dove ciò che hanno rischiato rappresentava solo i propri sogni di guadagno. Ho già visto molti siti in Sardegna che hanno questa proprietà: sono nicchie del tempo, bolle che racchiudono dei respiri di storia, imprigionate lì a testimoniare, nel luogo e nelle vestigia, una narrazione interrotta, tristemente equivocata o peggio inascoltata. Certamente i sardi hanno scritto molto poco di sé e della loro storia, e, ciò che più guasta, il più delle volte lo hanno fatto tenendo uno sguardo distratto e distorto pur di compiacere le pregiudiziali aspettative che fuori dall'isola i benpensanti avevano della sua immagine e della sua storia. Ed è quindi una vera fortuna che vi siano ancora tanti luoghi che parlano da soli, pur nella loro parola interrotta, della loro vibrante realtà. Rosas, la miniera, il villaggio minerario è uno di questi luoghi. Il primo
incontro è con quattro lecci. Tre a sinistra della carreggiabile ed uno
più avanti a destra solitario e maestoso. Sono relitti viventi di una
foresta primigenia. Ziu Ginu Mei, il nostro piccolo, grande minatore è
in auto con noi e proprio qui ha una specie di sussulto. Dopo pochi tornanti in salita i fianchi scistosi della valle si aprono e ci presentano il monumento della laveria. Scendiamo
dall'auto nel grande piazzale di pietra chiara che le dà risalto. Sopra
le colonne di mattoni, unite da inferriate, le pareti sono in listati
di legno da un bell'effetto cromatico. Di
fronte alla parte sinistra della laveria, separata da una piccola strada,
c'è la cabina elettrica e, a sinistra di questa, la ristrutturazione di
quelli che erano i locali della chimica, dove si analizzavano i campioni.
Ziu Ginu dice che era un edificio ad un piano ma l'attuale rifacimento
gliene ha sovrapposto un altro. Proseguiamo sulla breve strada che affianca
il lato sinistro della laveria e lì, ad essa adiacenti stanno dei locali
che servivano per le officine meccaniche. Il minerale, infatti, dopo la sua ultima fase di lavorazione, usciva in carrelli dal primo piano della laveria. Su di un piccolo binario attraversava un ponte sulla strada e una leggera curva lo portava fino all'imbocco superiore dei locali del deposito. Lì si fermavano i carrelli per essere pesati e dopodiché si rovesciavano nei cumuli da dove il minerale veniva poi caricato dai minatori sui camion per il suo viaggio fino al porto dove poi sarebbe stato imbarcato. La strada
a seguirla porta al villaggio. Si sale e con qualche casetta a destra
e qualcuna a sinistra si snoda tutto il nucleo abitativo. Ma
Ziu Ginu ci tiene a farci notare che più a sinistra e un poco più su rispetto
all'ufficio postale si notano delle scure rovine. "vedete
lì? C'era la casa dell'usuraia" Dell'usuraia?- chiediamo Saliamo
ancora più su e la strada si divide. Prendiamo quella di sinistra che
ci conduce ad un lungo piazzale a terrazzo ricavato da un terrapieno sul
fianco di una collina. C'è un'ampia costruzione ad elle a due piani che
incornicia il piazzale. Lidia Flore |
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Sbirciando
in alto, alla fine dell'ultimo tornante vediamo una casa colore cielo
chiaro col le finestre azzurre, incorniciata da folte composite gialle. Una
donna anziana sorridente si muove dal cortile della casetta color cielo
chiaro e ci viene incontro . Con molta facilità entriamo in contatto cordiale
e diretto. Ci presentiamo. Lei insieme al marito e i figli hanno vissuto
di pastorizia da parecchi anni. Ma non sono originari del luogo, sono
venuti subito dopo sposati da Desulo. Io sono piacevolmente sorpresa e
la curiosità ormai è mia padrona. Lei si protende verso il piccolo giardino
terrazzato, a destra dell'uscio di casa, in cerca del marito. Vedo che
risale un grazioso vecchietto con sciarpa e berretto. Saluta noi e la
nostra guida, dopo qualche secondo dimostra di ricordarsi di lui. Ha in
mano un piccolo stelo di rosa con bocciolo. Arrivato lentamente sul piccolo
cortile d'ingresso, dopo aver abbracciato Ginu, me lo porge. Io sono esterrefatta
da tanta squisita gentilezza e dico qualcosa che incornicia di un grande
valore quel suo gesto. Ma lui, con un sorrisino sotto i baffi e facendo
spallucce si giustifica: "Mbe, ho sentito dalle
voci che avevamo un'ospite femminile, e allora…" Ammiro
estasiata il panorama che ho intorno. Colline o basse montagne, lei, la
moglie Giovanna, con un sorriso si schermisce: "Qui
li chiamiamo monti." ma dal suo sguardo e dal come me ne indica
i nomi mi accorgo che lei sta abbracciando con tanto amore e grande rispetto
quei crinali. Monti Nieddu, Monti Orri, S'ega Fogus. A me potranno
sembrare delle irte creste che chiudono a corona il colle sulla cui cima
sta appollaiata la loro casa, ma a lei indubbiamente quei piccoli monti
rappresentano la dominante compagnia alla sua esistenza per tanti anni.
Non mi è difficile immaginarla dalla finestra piccola azzurra, che verso
le colline si affaccia, scrutare i loro fianchi nelle sue attese brumose
ed uscire fuori ogni tanto a percepire da quelle vie del ritorno il latrare
festoso dei cani, la musica del gregge, la voce dei suoi uomini. Il piccolo cestino dal bordo trinato e il disegno di uccelletti sui rami è adatto per contenere dolci, una funzione più spiccatamente estetica la svolge un cesto più grande con il disegno benaugurante del ballo tondo e l'effetto cromatico dell'alternanza dei colori nel vestiario delle sagome che si tengono per mano. Mi dà in mano questi piccoli cesti per vedere da vicino la perfezione del lavoro: una spirale di steli di giunco - avvolti da rafie e con rafie cuciti impercettibilmente e indissolubilmente - che solleva dolcemente la sua circonferenza a modo di vassoio ceramico.Come il vassoio ceramico contiene il suo decoro fatto di disegni prodotti dall'alternanza in equilibrio matematico di rafie colorate. Ci tiene
a dirmi che sono quasi indistruttibili. "Sapessi
quante volte sono stati lavati con acqua e spazzola!" Spingendomi
quindi a riflettere sulla preziosità intrinseca di questi oggetti comprensiva
di più ampie potenzialità oltre che della loro estetica. Il costume di Desulo è tra le cose più belle che caratterizzano le produzioni della cultura sarda. La luce che quelle stoffe e quei ricami emanano si percepisce a chilometri di distanza. Certamente una donna nei territori di Desulo non passava inosservata, non potrebbe certamente nascondersi mai con siffatte vesti. Il rosso dell'orbace, l'azzurro intenso del raso, l'oro fiammato dei fili di ricamo. Molti Desulesi sono presenti nel territorio Sulcitano. Si pensi che nella città di Iglesias sono ben 4000 e i residenti attuali a Desulo sono invece 2900. Dal ripopolamento seguito alla fine del dominio spagnolo, molti scendevano nei campidani per la transumanza e in ricorrenti periodi di depressione demografica finivano poi per impossessarsi di terreni incolti e incustoditi del Sulcis ma che si rivelavano molto utili o per fertilità o per il legnatico di boschi o per l' allevamento. E' così che in ogni paese del Sulcis numerose sono le famiglie le cui origini riportano a Desulo. Lei
i pezzi della sua vita me li mostra così con le sue opere. E' sorprendente
come già poco lontano da qui si viva in un epoca in cui tutto è già dato
e allo stesso tempo tutto è gia perduto. Nella nostra quotidianità affrettata
difficilmente realizziamo da noi qualcosa in grado di rappresentarci,
di creare una nostra immagine nel tempo. Lei invece, filo dopo filo, punto
dopo punto crea da sé la sua luce, la sua splendida veste. Ma pur abbracciando
con gioia questa sorprendente realtà c'è un qualcosa che mi rattrista
e sgomenta: questa sua straordinarietà è qui chiusa tra questi piccoli
monti, muti, dove la vita, quella poca che c'è stata, è andata via e la
sua quieta operosità non comunica più il suo valore, la sua importante
memoria a nessuno. Mi ritorna l'immagine della ruggine sulla tramoggia,
su cui mi ero soffermata, perché sento ora che la preziosità di queste
vite nascoste e perciò sprecate sia il sintomo di un'altra ancor più grave
corrosione : quella sulle coscienze di comunità sociali che vogliono voltare
pagina senza mai dettare niente di proprio sulla nuova pagina. Il loro
voler vivere ancora lì, nonostante tutto (nonostante la lontananza dei
figli che hanno creato altre loro famiglie, nonostante l'abbandono della
miniera), nonostante la solitudine, unici superstiti di un epopea mineraria,
me li fa radicare nel cuore. La loro non è testardaggine bensì straordinario
potere della vera dignità. Sento che dobbiamo noi avvicinarci con umiltà
e amore a loro e non il contrario. Sento che riprendere la tessitura della
loro esistenza ci fornirebbe un filtro efficace per separare tutto ciò
che oggi è umano degrado da ciò che invece è depositario di umani valori. Riscendiamo con la nostra guida la strada che ci riporterà alla laveria e quindi all'automobile. Siamo un po' frastornati dalle emozioni ricevute e da lì, dall'alto scopriamo la bellezza della valle del Riu Barisonis: i colori saturi dei fiori che si protendono ai lati dei sentieri, il brillio dei verdi della macchia. Il nostro respiro sembra voglia dilatarsi a tal punto da sussultare. Giù
nel piazzale Ziu Ginu vuole ancora sbirciare tra i pilastri della laveria
e lasciare attivare i ricordi, ma nota con un po' di disappunto che il
recupero e la ristrutturazione in alcuni casi non sono stati fedeli. Io
invece prima di entrare in macchina mi soffermo sul piazzale a pensare
agli operai di Rosas che vedevano andar via sui camion il prodotto del
loro sacrificio e forse si domandavano: "dove parte
tutto questo? E laddove finirà il suo viaggio, si percepirà il nostro
lavoro, il contributo della nostra totale esistenza ?" Lidia Flore Foto
di Gabriele Vargiu e Lidia Flore |
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