Mario
Cabriolu
|
Il
riso sardonico Le più antiche
attestazioni del nome attuale della Sardegna nella letteratura greca risalgono
per lo meno ad Erodoto (V sec. a.C.(1).
Il detto "ridere in modo sardonico" ha suscitato forti discussioni, soprattutto nell'ultimo secolo, fra coloro che ne negano un riferimento agli antichi abitanti della Sardegna e coloro che affermano che l'aggettivo sardonico fosse riferito proprio ai sardi ! Quell'espressione,
chiara nel significato ma dalla genesi oscura, ha indotto i vari commentatori
Omerici a fornire delle spiegazioni sulla sua origine. Tali commenti,
purtroppo in parte discordanti fra loro, accompagnano ancora oggi il dibattito
su quanto di vero ci sia stato tramandato dalla letteratura greca e latina
sugli antichi abitanti della Sardegna. L'argomento viene trattato con
dovizia di particolari e ampia bibliografia di riferimento da Ignazio
Didu(2).
Negli scoli ad Omero abbiamo altre testimonianze: si racconta di come Talo, uccidesse i sardi col suo abbraccio rovente. Il riso sardonico è, secondo alcuni dell'automa Talo mentre uccide i malcapitati, e, nella bocca di questi ultimi secondo altri, mentre muoiono arroventati. Quale fosse la spiegazione che gli antichi proponevano dell'espressione "riso sardonico" è ancora riassunto dal Didu :
E' molto interessante il seguito delle informazioni fornite da Didu sul mito in questione :
Non mi dilungo sull'erba sardonia, erba velenosa che, sempre secondo gli antichi, provocava la morte in chi la mangiava, con la contrazione del viso in maniera di "falso sorriso", perché nulla toglie a quanto detto sin'ora circa le rappresentazioni plastiche del "riso sardonico" di cui andrò ora a parlare. La notizia piuttosto serve a definire ancor meglio un cerimoniale che trova completa rispondenza in alcune manifestazioni in uso nella nostra isola fino a poco più di due secoli fa e di cui parleremo in seguito (si veda il paragrafo 7). 1 - Le attestazioni più antiche del nome dell’isola e dei suoi abitanti, in lingua sarda e in caratteri fenici, sono anteriori di diversi secoli. Si veda al riguardo G. Sanna, Sardôa Grammata, ed. S'Alvure, Oristano 2004. 2 - I. Didu, Greci e la Sardegna, il Mito e la Storia, Scuola Sarda Editrice, Cagliari 2003 3 - Mitico automa di bronzo, forgiato da Efesto 4 - I. Didu, Greci e la Sardegna, op.cit., pp. 18-19 5 - I. Didu, Greci e la Sardegna, op.cit., pp. 22-23 6 - I. Didu, Greci e la Sardegna, op.cit., p. 23 |
L'immagine del riso sardonico Le descrizioni tramandateci dagli antichi sul sardonios ghelos fanno riferimento :
A questa breve illustrazione segue necessariamente una domanda :
Gli studiosi, a tal proposito, seguono quattro fondamentali indirizzi :
Se
ci soffermiamo un attimo sulle teorie esterofile, vediamo che tali argomentazioni
sono difficilmente sostenibili, soprattutto se pensiamo che le prime testimonianze
sul riso sardonico e sui rituali annessi, sono di autori greci che riferivano
di usanze "strane" ai loro occhi, all'interno di riti a loro estranei(1).
Possiamo anche, senza nulla rischiare, ammettere che i cerimoniali in
questione condividessero con quelli dionisiaci lo stesso fine rituale:
quello di ricevere la benevolenza divina in periodi dell'anno cruciali
con offerte o sacrifici. Tali cerimonie sono comuni a tutte le culture
ai quattro capi del mondo. Sono i particolari a differenziare un rituale
da un altro, e i greci non si riconoscevano in essi e tanto meno sapevano
di un Dioniso sardo ... le testimonianze parlano di un Crono Sardo. Le
citazioni omeriche del riso sardonico potrebbero risalire all'VIII sec.
a.C. Secondo gli studi più accreditati sulla colonizzazione fenicia in
Sardegna, le prime colonie nell'isola dovrebbero esser sorte all'inizio
dell'VIII sec. a.C. Dovremmo cioè ammettere che in Sardegna i rituali
fenici si siano diffusi e abbiano attechito in maniera così rapida e ampia
nella popolazione tanto che, nell'arco di qualche decennio, certe manifestazioni
legate a quei riti (fenici) siano state tramandate al di fuori dell'isola
col nome degli stessi isolani.
In quest'ultimo caso più verosimilmente avremmo cioè sentito parlare di riso tirio o riso sidonio o riso punico … Siamo portati ad escludere che tale mito sia tutta un'invenzione, non fosse altro per la diffusione che già nell'antichità ha avuto il detto sul riso sardonico. Il riso sardonico era proprio dei sardi ! E questa conclusione contiene importanti conseguenze anche dal punto di vista archeologico ancora del tutto trascurate ! Proviamo
a concentrarci sul viso di un vecchio che, al culmine di una cerimonia
religiosa, viene messo a morte e che affronta il "trapasso" nella piena
consapevolezza che il suo sacrificio è la volontà divina, è l'atto indispensabile
per il corretto procedere della vita, è un passaggio a nuova vita ! Il
vecchio deve affrontare il trapasso gioiosamente, e lo fa con un ultimo
sorriso, quasi esagerato, quasi falso, a denti stretti ! 1 - In tal senso si esprime anche F. Mazza, pur riferendo i culti connessi col riso sardonico ai soli cartaginesi: «Si rafforza il sospetto che gli autori classici che ne parlano non avessero in realtà cognizione diretta di questi riti (…) e che quindi, nelle poche descrizioni che ce ne sono giunte, il riecheggiamento di leggende e dicerie, non disgiunto da motivazioni di propaganda negativa, vi abbia un ruolo non secondario nella rappresentazione a fosche tinte di fenomeni culturali di un mondo sentito come completamente diverso»; tratto da L’immagine dei Fenici nel mondo antico, in S.Moscati - direzione scientifica di, AA.VV., I Fenici, Bompiani, Milano 1988, p.565 |
Le maschere "ghignanti" fenicie
Le
maschere in terracotta, insieme alle protomi (distinguibili dalle prime
per l'assenza dei fori in corrispondenza di occhi e bocca), avevano una
particolare diffusione nel Vicino Oriente già alla fine del II millennio
a.C.
Dalla
madrepatria fenicia la maschera in terracotta viaggia verso occidente.
Tale "viaggio" non è indolore: le maschere assumono caratteristiche diverse
e originali rispetto alla madrepatria fenicia e questo sicuramente per
influssi "locali" piuttosto che per semplice evoluzione del gusto delle
genti fenicie: le maschere ghignanti non esistono in terra fenicia!: "Le
maschere virili sono la categoria di più antica attestazione a Cartagine
(dal VII sec. a.C.). Frequenti risultano le maschere "grottesche", raggruppate
nei tipi "negroide" e "ghignante" (…) In Sardegna l'uso di maschere e
protomi ha un'attestazione analoga a quanto già notato a Cartagine; le
analogie riguardano tipologia generale e cronologia"(3)
Cerchiamo allora, con G. Pesce, di conoscere meglio quella categoria di maschere considerate fenicie, o meglio puniche, note come maschere "ghignanti" : "Sono fra i più originali prodotti dell'industria artistica punica. Testa calva, viso glabro, guance e fronte tatuate, grandi occhi forati, larga bocca ghignante o digrignante, orecchie enormi, anello nasale di bronzo in un esemplare.(…) Due degli esemplari sardi di tipo orientale, provenienti da Tharros (…) presentano quattro grossi nei in linea perpendicolare in mezzo alla fronte, oltre ai tatuaggi. Sono state additate a confronto, per siffatti particolari, figure d'individui di una tribù libica, rappresentate in monumenti egizi, ed anche il costume, ancora in uso presso popoli selvaggi dell'Africa, quali ad esempio i Bakuba, che in occasione di cerimonie sacre si applicano nei e si dipingono la faccia e il corpo.
Varie sono state le opinioni proposte, per spiegare la presenza di queste "maschere" nelle tombe. La vecchia idea, secondo la quale siffatte maschere si sarebbero applicate al viso dei morti, per effetto di un rito egiziano ed anche miceneo, va esclusa perché molte di tali maschere sono più piccole del naturale. Più convincente è quest'altra spiegazione: in una tomba punica africana una maschera del tipo in questione fu trovata al suo posto, a terra a piè della scala di accesso e davanti alla soglia d'ingresso alla camera funeraria, col viso rivolto al cielo. Un'altra maschera grottesca fu trovata davanti alla porta d'ingresso di un santuario punico a Cartagine. È chiaro, dunque, che queste protomi erano talismani, cioè guardiani del sepolcro o del tempio (e anche forse delle case degli uomini), in quanto, col loro aspetto orripilante, spaventavano gli spiriti maligni, che così non potevano nuocere. Ma a che servivano i forellini in margine a queste maschere? Fors'erano applicate a un palo o ad un manichino e portate in processione, dietro alla bara, nel corteo funebre, prima di essere esposte nella tomba? Questa spiegazione, proposta dal Lilliu, è finora la più accettabile"(4).
Leggiamo la descrizione che lo stesso G. Pesce ha dato della splendida maschera riprodotta nella fig.7 : ""Maschera" in terracotta da una tomba punica di San Sperate presso Cagliari. Si attribuiva all'aspetto orrido di siffatte immagini il potere magico di spaventare gli spiriti del male, mettendoli in fuga affinché non danneggiassero il morto. Se mancassero altri elementi basterebbe la presenza dell'anello nasale a documentare la punicità di questa terracotta. Non è facile assegnarle una data, fondandosi sui caratteri dell'arte.
Un parallelo nel mondo greco è rappresentato dalle maschere, trovate nel santuario spartano di Artemide Orthia, che sono del VII-VI secolo a.C. A questo esemplare mancano gli orecchini. Meno chiaro è il significato dei buchi sopra alle tempie : c'era forse una parrucca? oppure la maschera era applicata a un'anima di legno? o era sospesa?"(5). Questa breve sintesi ci consente di evidenziare alcuni aspetti fondamentali per il presente studio :
1 - A. Ciasca, Le protomi e le maschere, op. cit., p. 354 2 - A. Ciasca, Le protomi e le maschere, op. cit., p. 354 3 - A. Ciasca, Le protomi e le maschere, op. cit., pp. 358-361 4 - G.Pesce, Sardegna Punica, a cura di R.Zucca, Illisso, Nuoro 2000 pp.234-236 5 - G.Pesce, Sardegna Punica, op. cit., p.258 |
Dov'è nata la maschera ghignante ?
Le
città fenicie della Sardegna e Cartagine presentano una particolare
convergenza per quanto riguarda certi prodotti artistici: fra questi figurano
sicuramente le maschere ghignanti per le quali, vista la vicinanza tipologica
e, al contempo, la differenza sostanziale con altre ritrovate nelle terre
fenicie d'occidente, è possibile mettere in dubbio la paternità punica
e avanzare l'ipotesi della primogenitura sarda.
Dobbiamo
osservare anzitutto che l'areale di diffusione della maschera ghignante
è quello dell'impero punico arcaico (Tunisia, Sicilia, Sardegna, Ibiza)
ma la presenza è numericamente rilevante solo in Sardegna e in Tunisia!
Questo fatto deve far riflettere: se davvero il centro di irradiazione
fosse stato Cartagine, avremmo dovuto trovare riscontri in tutto l'impero
punico. Inoltre le maschere sarde, come osserva Ciasca, presentano una
varietà addirittura maggiore rispetto alle maschere cartaginesi ! La
città più "fenicia" dell'Isola, S.Antioco, non ha finora restituito alcuna
maschera ghignante! Alcune maschere sarde presentano una peculiarità,
solo parzialmente riscontrabile anche nelle maschere di Cartagine : si
tratta dei motivi circolari raggiati presenti sulla fronte e su altre
parti del viso nella maschera, la cui funzione non è nota. Tali "decori"
sono assenti nella maschera di Mothia e in quelle di area Iberica. Questo
fatto rafforza ulteriormente l'ipotesi dell'origine sarda di tale simbolismo,
ma, se volessimo andare ancora oltre, potrebbe anche essere la prova della
paternità sarda di questa tipologia di maschera, fatta propria dai punici
! 1 - Altre 2 tipologie di maschere puniche in terracotta, non trattate nel presente studio, sono di riconosciuta derivazione da modelli greci ! |
Un abbinamento improponibile
I
Siciliani non hanno alcuna difficoltà a vedere nella loro mascherina di
Mothia la rappresentazione del riso sardonico(1).
In Sardegna questo accostamento sarà difficilmente "osato". Come abbiamo
visto il riso sardonico fa evidente riferimento ai sardi nuragici e non
può in alcun modo essere associato alle maschere fenicie: varrebbe a dire
che furono i fenici ad essere influenzati dai sardi, a tal punto da utilizzare
fin dentro la capitale della fenica d'occidente, Cartagine, un rituale
sardo ! La maschera ritrovata a Mothia, ancor più che a quelle cartaginesi,
è incredibilmente simile a quella di S.Sperate e quindi va assolutamente
sottolineata la vicinanza fra la manifattura di Mothia e quella sarda
prima ancora che l'accostamento mothia-Cartagine !
La
somiglianza è tale che siamo probabilmente di fronte a prodotti dello
stesso artista, che ha curato maggiormente la maschera di S.Sperate, forse
con aggiunte richieste dal committente che non risultano presenti in altre
maschere extra-Sardegna. Non dobbiamo trascurare poi il fatto che in base
alle datazioni "ufficiali" delle maschere, quella sarda e quella di Mothia
vengono collocate in un perioco compreso fra VI-V sec. a.C., quella Cartaginese
più simile tipologicamente (fig. 12)
è datata fra V-IV sec. a.C.!(2))
Cosa
rappresentano effettivamente queste maschere ? Abbiamo dei volti caratterizzati
da rughe profonde, presumibilmente vecchi quindi (noi vediamo i segni
dell'età piuttosto che tatuaggi in quelle incisioni lungo le guance e
lungo la fronte) ! L'espressione del volto è detta "ghignante"; si tratta
di un sorriso forzato, a "denti stretti".
Potrebbe
trattarsi di una semplice coincidenza ma le corrispondenze sono troppo
evidenti. Le maschere sono state ritrovate tutte in ambiente considerato
fenicio-punico e Cartagine, come abbiamo visto, è uno dei luoghi dove
alcuni autori ambientavano i riti sacrificali dove era possibile vedere
le vittime "ridere amaramente" prima della morte. Ci insospettisce molto
quella confusione (che vede come interpreti, come già detto, fra gli altri
autori classici, Clitarco e Filosseno) fra sardi e punici, fra rituali
sardi e rituali fenici, soprattutto se rimaniamo eccessivamente aderenti
alle lezioni fornite dagli studiosi tradizionalisti: i sardi indigeni
non condivideva nulla con i fenici e tantomeno con i greci, erano barbari
! 1 - Valentina Pagano, Mozia: il riso sardonico della maschera ghignante, tratto da arkeomania.com: «Nell’isoletta di Mozia, colonia fenicia dell’VIII sec. a.C., a poco più di cento metri dalla necropoli arcaica si trova il cosiddetto tophet (…), il santuario dove venivano sacrificati alle divinità Baal Hammon e Astarte i primogeniti maschi ancora in fasce, le cui ceneri erano poi conservate in vasi di terracotta. Questo santuario, oltre a steli, vasi, statuine, ci ha regalato, oltre all’ormai famosa “Maschera ghignante” (VI sec. a.C.), alcune protomi fittili. (…). La maschera rinvenuta a Mozia appartiene al tipo grottesco, la cui peculiarità sono i lineamenti del volto distorti e modificati. Nelle colonie fenicie fondate nel Mediterraneo occidentale esemplari appartenenti a questa tipologia sono alquanto frequenti; ne sono stati ritrovati a S. Sperate (Cagliari), a Tharros, a Cartagine e ad Ibiza (A. Ciasca, I Fenici, Bompiani). L’affinità della maschera di Mozia con quelle cartaginesi, dovuta all’uso della stessa tecnica per la realizzazione della bocca con fori agli angoli e delle orecchie forate, testimonia l’esistenza di precisi rapporti con la città di Cartagine. Alcuni studiosi vedono nel volto contratto della maschera ghignante il cosiddetto sorriso sardonico, quella particolare espressione “che doveva dimostrare gioia nel momento in cui si offriva alla divinità la primizia - il figlio maschio primogenito - ma che nello stesso tempo esprimeva immenso dolore” (A.Vita, I Fenici alla luce degli ultimi ritrovamenti di Mozia e di Marsala, Edizioni Campo). Quasi tutti concordano, però, nell’attribuire alla maschera per la sua aggressività e il suo aspetto demoniaco una funzione apotropaica (dal greco apotrépo, allontano; apotrópaios, che allontana i mali), termine che gli antichi attribuivano ad oggetti deformi e grotteschi, in grado, cioè, di distogliere lo sguardo nemico». 2 - S.Moscati - direzione scientifica di, AA.VV., I Fenici, Bompiani, Milano 1988, p.565 3 - G. Sanna, Sardôa Grammata, ed. S'Alvure, Oristano 2004 |
I culti sacrificali antichi Medio-orientali
Riportiamo
un'ampio stralcio di un articolo di S. Quinzio sulla leggendaria pratica
fenicia del sacrificio di fanciulli :
Vi ritorna spesso, accompagnata da espressioni di indignazione e di condanna, l'espressione "far passare per il fuoco" ì figli. Si trattava infatti di olocausti, in cui la vittima veniva completamente bruciata. Secondo Geo Widengren, "in area semitico occidentale (ivi compresa l'israelitica) i sacrifici di bambini sono straordinariamente frequenti". C'è a questo proposito, nella Bibbia ebraica, la sconvolgente affermazione del profeta Ezechiele, che fa dire a Dio in riferimento al popolo ebreo:"Diedi loro statuti non buoni e leggi per le quali non potevano vivere. Feci si che si contaminassero nelle loro offerte, facendo passare per il fuoco ogni loro primogenito, per atterrirli, perché riconoscessero che io sono il Signore" (Ezechiele, 20, 25-26). Qui il "far passare per il fuoco" non è più considerato un uso idolatrico cananeo al quale gli ebrei indulgessero in un colpevole sincretismo, ma una paradossale prescrizione della legge data dall'unico Dio.
Forse
la "consacrazione" dei primogeniti e il loro "riscatto", di cui ci parlano
i libri dell'Esodo e dei Numeri, sono regole rituali che vennero a sostituire
una precedente vera immolazione alla Divinità, quale compì il giudice
Iefte con la propria figlia (Giudici, 11). Malgrado le apparenze, l'episodio
del sacrificio di Isacco richiesto da Dio ad Abramo suo padre sembra invece
implicare con la sua assoluta eccezionalità e la sospensione finale dell'uccisione,
come ha scritto Mircea Eliade il riconoscimento dell'enormità, dell'assurdità
di un simile sacrificio"(1).
Sempre dello
stesso articolo è utilissimo soffermarci su un'altra riflessione : 1 - S. Quinzio, Quei fanciulli passati per il fuoco, nella rivista La Stampa: Ecco i Fenici, pp. 65-67 2 - S. Quinzio, Quei fanciulli passati per il fuoco, cit. p. 67 3 - G. Sanna, Sardôa Grammata, op. cit., in particolare si vedano le pp. 108-112 |
Caricature o ritratti ?
Le
maschere fenicio-puniche cosiddette "grottesche" si distinguono tra "ghignanti"
e "negroidi". Le due tipologie hanno in comune l'essere prive di barba
e capelli (capo completamente rasato) e la smorfia strana nel viso, che
diviene vera e propria espressione ghignante anche nell'esemplare sardo
"negroide" riprodotto in fig. 11. 1 - le testimonianze parlano di differenze locali nei rituali in ambito isolano |
La maschera nella tradizione sarda Anche
i sardi nuragici conoscevano l'uso della maschera.
Il
cristianesimo, la nuova religione, ha profondamente modificato nei credenti
l'atteggiamento di fronte alla morte : la certezza della vita eterna per
coloro che abbiano condotto un'esistenza improntata nel rispetto dei comandamenti
divini non è sufficiente perché i vivi gioiscano del loro trappasso. E'
sicuramente innata nell'uomo la sofferenza di fronte alla morte di un
proprio caro, ma la religione precristiana in Sardegna evidentemente chiedeva
una partecipazione gioiosa dei vivi ai riti funerari. Restano di questo
fatto leggerissime tracce, ma molto significative, nei carnevali tradizionali
sardi, che sono la continuazione dei riti pagani, declassati dal cristianesimo
a sfilate in maschera gioiose ma ancora fortemente segnate dall'impronta
dell'antica religione isolana. 1 - A. Demontis, Il Popolo di Bronzo, Condaghes, Cagliari 2005, pp. 126-139 2 - Il sacrificio degli ultrasettantenni che si confonde, da un certo momento in poi, col sacrificio di fanciulli. 3 - D. Turchi, Maschere, miti e feste della Sardegna, ed. della Torre, Roma 2005, p.103 4 - D. Turchi, Maschere, op. cit., p. 94 5 - D. Turchi, Maschere, miti e feste…, op. cit., p. 117 6 - D. Turchi, Maschere, miti e feste…, op. cit., p. 21 7 - D. Turchi, Maschere, miti e feste…, op. cit., p. 53 8 - D. Turchi, Maschere, miti e feste…, op. cit., pp. 99-100 9 - A mio parere anche in tal caso erroneamente, così come per Tharros e per molte altre località isolane pre-puniche. 10 - Eliano Cau a cura di, Deus ti salvet Maria, S’Alvure, Oristano 2005 11 - D. Turchi, Perché il carnevale sardo è dionisiaco, Bonaventura Licheri e le maschere del ‘700, in Sardegna Mediterranea, aprile 2006, pp. 3-10 |
Le "piccole" maschere ghignanti
Riportiamo
alcune altre riflessioni di A. Ciasca relative alle ipotesi avanzate sull'uso
delle maschere in età fenicio-punica: "Per la specifica funzione di
protomi e maschere, sono state espresse opinioni in parte diverse. Le
protomi, che rappresenterebbero divinità, vengono classificate fra gli
oggetti votivi nei santuari e fra le immagini tutelari del defunto nelle
tombe. Per le maschere, le aperture in corrispondenza di occhi e bocca
ne indicherebbero l'uso su esseri viventi: alcune, di grandezza naturale,
potevano venire indossate da sacerdoti o devoti nel corso di cerimonie
o rappresentazioni religiose (…) altre più piccole erano applicate a simulacri
o statue; per quelle del tofet di Mothia è stato suggerito che coprissero
il volto delle vittime del sacrificio"(1)
La
domanda corretta da porsi a mio parere è quindi la seguente : La
risposta c'è e sta proprio nella domanda: può sembrare macabra ma a ben
guardare risulta plausibile, in base alla già vista testimonianza di Filosseno,
alle ampie testimonianze raccolte da D.Turchi e alle ipotesi avanzate
sull'uso della maschera di Mothia. 1 - A. Ciasca, Le protomi e le maschere, op. cit., p. 354 |
Conclusione
La
gran parte delle maschere "grottesche" sarde, e tutte quelle "ghignanti",
ad eccezione di quella di S.Sperate, sono state ritrovate a Tharros e
questa è una circostanza che deve far riflettere.
A
Tharros i greci avevano libero accesso e libertà di scambio : è uno di
quegli scali da dove gli stranieri potevano entrare in contatto con le
tradizioni locali sarde. E' uno di quei luoghi dove probabilmente i visitatori
ebbero modo di assistere alle cerimonie cruente del "riso sardonico"!
E' molto improbabile infatti che visitatori stranieri abbiano potuto assistere
alle cerimonie del sacrificio dei vecchi settantenni in luoghi quali il
"recinto megalitico di Monte Baranta"(3). Sembra
un'enorme forzatura l'accostamento proposto fra maschere ghignanti e mamuthones(5),
ma quelle frontiere, magari fortificate, di cui ci parlano molti studiosi,
tra mondo barbaricino e zone costiere dell'Isola almeno dal VII sec. a.C.,
se mai sono esistite, erano più politico-economiche che culturali. Sull'argomento
restano molti punti interrogativi, che fiaccano qualunque presunzione
di acquisita certezza.
Sono però convinto che lo studio di un prodotto artigianale a cui normalmente si dedica al più uno striminzito paragrafo nei testi di storia fenicio-punica in Sardegna quale è la maschera ghignante, e in particolare la sua diffusione, associata a datazioni dirette sui manufatti, e alla comparazione con le altre maschere e protomi "fenicie" presenti contemporaneamente nell'Isola, meriti ben altri spazi nei trattati di storia e archeologia. 1 - G. Sanna, Sardôa Grammata, op. cit. pp. 55-56 2 - M.Cabriolu, Tartesso, quando la città regina dell’occidente non era un mito della penisola iberica, pubblicato in sardolog.org 3 - G.Ugas, L’alba dei nuraghi, Fabula, Cagliari 2005, p.87 4 - E’ rilevante a tal proposito l’opinione che C. Albizzati si era formato sulla religiosità fenicio-punica: «I Fenici, che si valsero quasi sempre di motivi stranieri anche per l’arte religiosa, praticarono un eclettismo che a volte sembra capriccio, persino nei simboli delle divinità, variando i motivi con tale libertà che talora vien fatto di pensare ad una improvvisazione senza precedenti tradizionali», tratta da C.Albizzati, Sardus Pater, in AA.VV., Il Convegno Archeologico in Sardegna – giugno 1926, Officine tipografiche reggiane, Reggio Emilia 1929, pp. 87-94 5 - Già azzardato per altro da D.Turchi, nell’opera citata Maschere, miti e feste della Sardegna. 6 - Si vedano, solo per limitarci agli esempi deducibili dal II e III libro della Biblioteca Storica di Diodoro Siculo, il caso riportato in II.57.5 degli abitanti della mitica isola di Giambulo e quello in III.33.1-2 dei Trogloditi africani (che pare praticassero una cerimonia sepolcrale che culminava col lancio di sassi sul cadavere accompagnato dalle risate dei “lanciatori”) 7 - E’ quanto si deduce dall’usanza degli Etiopi descritta ancora da Diodoro Siculo in III.6.1-3 dove, a proposito dell’autorità dei sacerdoti e della loro facoltà di ordinare al re di darsi la morte, l’autore giustifica questa pratica dicendo che: «sono gli dei ad aver vaticinato ciò a loro, e l’ordine degli Immortali non deve essere in nessun modo trascurato da un essere mortale; e aggiungono altri ragionamenti, quali potrebbe accettare solo una natura di mente semplice, educata secondo una pratica antica e difficile da sradicare, e che non ha argomenti da opporre a ordini impartiti senza che ve ne sia necessità.Ora in tempi precedenti i re obbedivano ai sacerdoti, non perché fossero sopraffatti dalle armi e neppure dalla violenza, ma perché sui ragionamenti aveva avuto la meglio proprio la superstizione», tratto da Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Libri I-III, a cura di G.Cordiano e M.Zorat, Bur, Milano 2004. |
Bibliografia
essenziale
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