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Mario Cabriolu
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Il riso sardonico
e le maschere ghignanti fenicie

Il riso sardonico L'immagine del riso sardonico Le maschere "ghignanti" fenicie
Dov'è nata la maschera ghignante ? Un abbinamento improponibile I culti sacrificali antichi Medio-orientali
Caricature o ritratti ? La maschera nella tradizione sarda Le "piccole" maschere ghignanti
Conclusione                           Bibliografia essenziale

Le Maschere dell'antico carnevale Barbaracino
Fotografie di Gabriele Vargiu - Testo di Lidia Flore

Il riso sardonico
(sardonios ghelos)

Le più antiche attestazioni del nome attuale della Sardegna nella letteratura greca risalgono per lo meno ad Erodoto (V sec. a.C.(1).
Ancora più antico è l'uso dell'aggettivo "sardonico", presente, per la prima volta, nel ventesimo libro dell'Odissea e riferibile forse all'VIII sec. a.C.

L'aggettivo sardonico compare ancora in altri autori classici riferito al lino sardonico e alla spina sardonica. In questo lavoro soffermeremo la nostra attenzione sull'omerico riso sardonico.

Nel ventesimo libro dell'Odissea, Ulisse, a seguito dell'offesa subita da parte di Ctesippo, uno dei pretendenti di Penelope, ride nel suo animo in modo sardonico, consapevole del destino di morte che attende Ctesippo e i suoi rivali.

Il detto "ridere in modo sardonico" ha suscitato forti discussioni, soprattutto nell'ultimo secolo, fra coloro che ne negano un riferimento agli antichi abitanti della Sardegna e coloro che affermano che l'aggettivo sardonico fosse riferito proprio ai sardi !

Quell'espressione, chiara nel significato ma dalla genesi oscura, ha indotto i vari commentatori Omerici a fornire delle spiegazioni sulla sua origine. Tali commenti, purtroppo in parte discordanti fra loro, accompagnano ancora oggi il dibattito su quanto di vero ci sia stato tramandato dalla letteratura greca e latina sugli antichi abitanti della Sardegna. L'argomento viene trattato con dovizia di particolari e ampia bibliografia di riferimento da Ignazio Didu(2).
Lo studioso ci informa che la seconda citazione del "riso sardonico" in ordine di tempo a noi nota è quella che il poeta lirico Simonide inserì in un componimento andato perduto e :

"richiamato da tardi eruditi e scoliasti, in modo, purtroppo, non univoco e coerente; riferisce il paremiografo Zenobio che Simonide raccontava come Talo(3), prima di giungere a Creta, risiedesse in Sardegna e che uccidesse molti di coloro che erano in essa: le vittime nel morire, mostravano i denti, nell'atto del seserenai; da ciò l'espressione di "riso sardonio""(4).

Negli scoli ad Omero abbiamo altre testimonianze: si racconta di come Talo, uccidesse i sardi col suo abbraccio rovente. Il riso sardonico è, secondo alcuni dell'automa Talo mentre uccide i malcapitati, e, nella bocca di questi ultimi secondo altri, mentre muoiono arroventati. Quale fosse la spiegazione che gli antichi proponevano dell'espressione "riso sardonico" è ancora riassunto dal Didu :

"una notizia attribuita a Timeo, il quale avrebbe riferito come in Sardegna i vecchi di 70 anni venissero uccisi a bastonate e sassate dai figli e precipitati in un fossato; nel perire i vecchi ridevano di un riso che per la crudele situazione e l'ambiente in cui si svolgeva il rituale, veniva chiamato "sardonio"; secondo una diversa lettura a ridere erano invece gli uccisori, mentre gli uccisi venivano sacrificati a Crono"(5)

E' molto interessante il seguito delle informazioni fornite da Didu sul mito in questione :

"Altre varianti imputano la soppressione dei settantenni non ai Sardi, ma ai Cartaginesi coloni in Sardegna. (…) Il teatro del rito si sposta nella stessa Cartagine secondo la notizia attribuita a Clitarco (…) che scive nel III sec. a.C., ove il sacrificato, qui fanciullo, è posto ad ardere tra le braccia di un Crono di bronzo e viene recuperata la spiegazione lessicografica che esclude la Sardegna; ma la Sardegna riappare in Filosseno (I sec. a.C.), a proposito dello stesso rito, avente per vittime sacrificali ancora una volta i fanciulli, rito che si svolgerebbe appunto in (Sardegna)"(6).

Non mi dilungo sull'erba sardonia, erba velenosa che, sempre secondo gli antichi, provocava la morte in chi la mangiava, con la contrazione del viso in maniera di "falso sorriso", perché nulla toglie a quanto detto sin'ora circa le rappresentazioni plastiche del "riso sardonico" di cui andrò ora a parlare. La notizia piuttosto serve a definire ancor meglio un cerimoniale che trova completa rispondenza in alcune manifestazioni in uso nella nostra isola fino a poco più di due secoli fa e di cui parleremo in seguito (si veda il paragrafo 7).


1 - Le attestazioni più antiche del nome dell’isola e dei suoi abitanti, in lingua sarda e in caratteri fenici, sono anteriori di diversi secoli. Si veda al riguardo G. Sanna, Sardôa Grammata, ed. S'Alvure, Oristano 2004.

2 - I. Didu, Greci e la Sardegna, il Mito e la Storia, Scuola Sarda Editrice, Cagliari 2003

3 - Mitico automa di bronzo, forgiato da Efesto

4 - I. Didu, Greci e la Sardegna, op.cit., pp. 18-19

5 - I. Didu, Greci e la Sardegna, op.cit., pp. 22-23

6 - I. Didu, Greci e la Sardegna, op.cit., p. 23

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L'immagine del riso sardonico

Le descrizioni tramandateci dagli antichi sul sardonios ghelos fanno riferimento :

      1. tutte, a uccisioni di natura sacrificale (si può ricondurre a sacrificio rituale anche la morte dei sardi sotto l'abbraccio rovente di Talo)
      2. alcune, a uccisioni di vecchi di oltre 70 anni di età
      3. poche, al sacrificio di fanciulli
      4. in tutte, la morte è accompagnata da una smorfia, interpretata come "falso sorriso", con digrignare di denti, quasi sempre del sacrificato, più raramente del boia

A questa breve illustrazione segue necessariamente una domanda :

  • il rito in cui compariva l'espressione del riso sardonico era un rito "sardo"?

Gli studiosi, a tal proposito, seguono quattro fondamentali indirizzi :

  • abbiamo da un lato coloro che prendono per buona la notizia e credono nell'arcaicità della stessa, tanto che localizzano il rito dell'uccisione dei vecchi in corrispondenza di questo o di quel nuraghe realizzato in corrispondenza di un dirupo
  • abbiamo poi i fenicisti, che prendono per buona la notizia al solito parzialmente e attribuiscono tutto quanto tramandato sui sardi ai fenici o ancora meglio ai cartaginesi stanziati nell'Isola
  • alcuni sostenitori dell'influenza dei riti isolani da quelli ellenici (portati nell'isola o con i Tespiadi guidati da Jolao, o con Aristeo, ecc.) vedono nelle cerimonie in cui compariva il riso sardonico, i riflessi di riti dionisiaci, sul modello di quelli greci
  • infine abbiamo i negazionisti, i quali ritengono che tutto il mito sul riso sardonico sarebbe un'invenzione ellenica

Fig. 1. Maschera ghignante fenicio-punica; proveniente da Tharros (OR)
(museo archeologico nazionale di Cagliari)

Se ci soffermiamo un attimo sulle teorie esterofile, vediamo che tali argomentazioni sono difficilmente sostenibili, soprattutto se pensiamo che le prime testimonianze sul riso sardonico e sui rituali annessi, sono di autori greci che riferivano di usanze "strane" ai loro occhi, all'interno di riti a loro estranei(1). Possiamo anche, senza nulla rischiare, ammettere che i cerimoniali in questione condividessero con quelli dionisiaci lo stesso fine rituale: quello di ricevere la benevolenza divina in periodi dell'anno cruciali con offerte o sacrifici. Tali cerimonie sono comuni a tutte le culture ai quattro capi del mondo. Sono i particolari a differenziare un rituale da un altro, e i greci non si riconoscevano in essi e tanto meno sapevano di un Dioniso sardo ... le testimonianze parlano di un Crono Sardo.

Le citazioni omeriche del riso sardonico potrebbero risalire all'VIII sec. a.C. Secondo gli studi più accreditati sulla colonizzazione fenicia in Sardegna, le prime colonie nell'isola dovrebbero esser sorte all'inizio dell'VIII sec. a.C. Dovremmo cioè ammettere che in Sardegna i rituali fenici si siano diffusi e abbiano attechito in maniera così rapida e ampia nella popolazione tanto che, nell'arco di qualche decennio, certe manifestazioni legate a quei riti (fenici) siano state tramandate al di fuori dell'isola col nome degli stessi isolani.


Fig. 2. Maschera fenicia ritrovata a Kaldè, nel Libano

In quest'ultimo caso più verosimilmente avremmo cioè sentito parlare di riso tirio o riso sidonio o riso punico … Siamo portati ad escludere che tale mito sia tutta un'invenzione, non fosse altro per la diffusione che già nell'antichità ha avuto il detto sul riso sardonico.

Il riso sardonico era proprio dei sardi ! E questa conclusione contiene importanti conseguenze anche dal punto di vista archeologico ancora del tutto trascurate !

Proviamo a concentrarci sul viso di un vecchio che, al culmine di una cerimonia religiosa, viene messo a morte e che affronta il "trapasso" nella piena consapevolezza che il suo sacrificio è la volontà divina, è l'atto indispensabile per il corretto procedere della vita, è un passaggio a nuova vita ! Il vecchio deve affrontare il trapasso gioiosamente, e lo fa con un ultimo sorriso, quasi esagerato, quasi falso, a denti stretti !
La fig.1 può ben rappresentare questa immagine, in modo anche eccessivamente dettagliato : si tratta di una delle famose maschere ghignanti del mondo fenicio-punico.


1 - In tal senso si esprime anche F. Mazza, pur riferendo i culti connessi col riso sardonico ai soli cartaginesi: «Si rafforza il sospetto che gli autori classici che ne parlano non avessero in realtà cognizione diretta di questi riti (…) e che quindi, nelle poche descrizioni che ce ne sono giunte, il riecheggiamento di leggende e dicerie, non disgiunto da motivazioni di propaganda negativa, vi abbia un ruolo non secondario nella rappresentazione a fosche tinte di fenomeni culturali di un mondo sentito come completamente diverso»; tratto da L’immagine dei Fenici nel mondo antico, in S.Moscati - direzione scientifica di, AA.VV., I Fenici, Bompiani, Milano 1988, p.565

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Le maschere "ghignanti" fenicie


Fig. 3. Maschera fenicia dalla necropoli di Akziv (Medio-oriente);
VIII-VII sec. a.C.

Le maschere in terracotta, insieme alle protomi (distinguibili dalle prime per l'assenza dei fori in corrispondenza di occhi e bocca), avevano una particolare diffusione nel Vicino Oriente già alla fine del II millennio a.C.
Grazie al lavoro di A.Cisca conosciamo l'importanza delle protomi e delle maschere di terracotta nel mondo fenicio :
"Anche se l'impiego di maschere in atti cultuali deve ritenersi largamente praticato nel mondo antico, una particolare frequenza di ritrovamenti dal Periodo del Bronzo finale alla prima parte del Periodo del Ferro interessa la fascia costiera del Vicino Oriente, con una concentrazione nelle città fenicie, tanto da farne uno dei tratti culturali e artigianali distintivi
(1)
Le maschere orientali compaiono in Palestina e in Siria a partire dal Periodo del Bronzo tardo. Il loro impiego si intensifica nel Periodo del Ferro fino ad interessare tutta la costa fenicia e Cipro a partire dal IX sec. a.C. : "Il complesso dei ritrovamenti dei gruppi asiatico e cipriota documenta una relativa uniformità nella tipologia. Sono presenti, anche se di rado, le maschere "grottesche" maschili".(2)


Fig. 4. Maschera fenicia dalla necropoli di Akziv (Medio-oriente);
VII-VI sec. a.C.

Dalla madrepatria fenicia la maschera in terracotta viaggia verso occidente. Tale "viaggio" non è indolore: le maschere assumono caratteristiche diverse e originali rispetto alla madrepatria fenicia e questo sicuramente per influssi "locali" piuttosto che per semplice evoluzione del gusto delle genti fenicie: le maschere ghignanti non esistono in terra fenicia!: "Le maschere virili sono la categoria di più antica attestazione a Cartagine (dal VII sec. a.C.). Frequenti risultano le maschere "grottesche", raggruppate nei tipi "negroide" e "ghignante" (…) In Sardegna l'uso di maschere e protomi ha un'attestazione analoga a quanto già notato a Cartagine; le analogie riguardano tipologia generale e cronologia"(3)


Fig. 5. Maschera grottesca da Kourion (Cipro); VI sec. a.C.
Sarebbe coeva di quelle sardo-puniche. Le striature sul capo e sul volto sembrano una maldestra imitazione di quelle presenti nelle maschere occidentali !

Cerchiamo allora, con G. Pesce, di conoscere meglio quella categoria di maschere considerate fenicie, o meglio puniche, note come maschere "ghignanti" : "Sono fra i più originali prodotti dell'industria artistica punica. Testa calva, viso glabro, guance e fronte tatuate, grandi occhi forati, larga bocca ghignante o digrignante, orecchie enormi, anello nasale di bronzo in un esemplare.(…) Due degli esemplari sardi di tipo orientale, provenienti da Tharros (…) presentano quattro grossi nei in linea perpendicolare in mezzo alla fronte, oltre ai tatuaggi. Sono state additate a confronto, per siffatti particolari, figure d'individui di una tribù libica, rappresentate in monumenti egizi, ed anche il costume, ancora in uso presso popoli selvaggi dell'Africa, quali ad esempio i Bakuba, che in occasione di cerimonie sacre si applicano nei e si dipingono la faccia e il corpo.


Fig. 6. Maschera ghignante fenicio-punica; ritrovata a Mothia
datata VI sec. a.C.

Varie sono state le opinioni proposte, per spiegare la presenza di queste "maschere" nelle tombe. La vecchia idea, secondo la quale siffatte maschere si sarebbero applicate al viso dei morti, per effetto di un rito egiziano ed anche miceneo, va esclusa perché molte di tali maschere sono più piccole del naturale. Più convincente è quest'altra spiegazione: in una tomba punica africana una maschera del tipo in questione fu trovata al suo posto, a terra a piè della scala di accesso e davanti alla soglia d'ingresso alla camera funeraria, col viso rivolto al cielo. Un'altra maschera grottesca fu trovata davanti alla porta d'ingresso di un santuario punico a Cartagine. È chiaro, dunque, che queste protomi erano talismani, cioè guardiani del sepolcro o del tempio (e anche forse delle case degli uomini), in quanto, col loro aspetto orripilante, spaventavano gli spiriti maligni, che così non potevano nuocere. Ma a che servivano i forellini in margine a queste maschere? Fors'erano applicate a un palo o ad un manichino e portate in processione, dietro alla bara, nel corteo funebre, prima di essere esposte nella tomba? Questa spiegazione, proposta dal Lilliu, è finora la più accettabile"(4).


Fig. 7. Maschera ghignante fenicio-punica; ritrovata a San Sperate (CA); risalente al VI sec. a.C.

Leggiamo la descrizione che lo stesso G. Pesce ha dato della splendida maschera riprodotta nella fig.7 : ""Maschera" in terracotta da una tomba punica di San Sperate presso Cagliari. Si attribuiva all'aspetto orrido di siffatte immagini il potere magico di spaventare gli spiriti del male, mettendoli in fuga affinché non danneggiassero il morto. Se mancassero altri elementi basterebbe la presenza dell'anello nasale a documentare la punicità di questa terracotta. Non è facile assegnarle una data, fondandosi sui caratteri dell'arte.


Fig. 8. Maschera ghignante fenicio-punica; proveniente da Tharros (OR)

Un parallelo nel mondo greco è rappresentato dalle maschere, trovate nel santuario spartano di Artemide Orthia, che sono del VII-VI secolo a.C. A questo esemplare mancano gli orecchini. Meno chiaro è il significato dei buchi sopra alle tempie : c'era forse una parrucca? oppure la maschera era applicata a un'anima di legno? o era sospesa?"(5).

Questa breve sintesi ci consente di evidenziare alcuni aspetti fondamentali per il presente studio :

  • l'origine occidentale della maschera ghignante, non dipendente quindi da modelli orientali !
  • la dichiarata difficoltà di datazione dei manufatti sardi, che, oltre che per la maschera di S.Sperate, vale anche per quelle ghignanti di Tharros
  • il fatto che siano state proposte diverse ipotesi di impiego delle maschere, ma che nei fatti non ci sia alcuna certezza
  • accanto all'indiscussa fenicità dei manufatti, gli stessi studiosi individuano peculiarità e influenze estranee al mondo fenicio: caratteri libici da una parte, greci dall'altra, e così via.

1 - A. Ciasca, Le protomi e le maschere, op. cit., p. 354

2 - A. Ciasca, Le protomi e le maschere, op. cit., p. 354

3 - A. Ciasca, Le protomi e le maschere, op. cit., pp. 358-361

4 - G.Pesce, Sardegna Punica, a cura di R.Zucca, Illisso, Nuoro 2000 pp.234-236

5 - G.Pesce, Sardegna Punica, op. cit., p.258

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Dov'è nata la maschera ghignante ?


Fig. 9. Maschera ghignante in terracotta. Tharros.
Museo Nazionale di Sassari.

Le città fenicie della Sardegna e Cartagine presentano una particolare convergenza per quanto riguarda certi prodotti artistici: fra questi figurano sicuramente le maschere ghignanti per le quali, vista la vicinanza tipologica e, al contempo, la differenza sostanziale con altre ritrovate nelle terre fenicie d'occidente, è possibile mettere in dubbio la paternità punica e avanzare l'ipotesi della primogenitura sarda.
Fra le tante obiezioni che si possono avanzare a questa ipotesi figurano quella secondo la quale la maschera in terracotta non risulterebbe essere mai stata in uso nella civiltà paleosarda. Forse non in terracotta, ma abbiamo delle testimonianze concrete della conoscenza e dell'uso delle maschere attraverso alcuni fra i più famosi prodotti della bronzistica nuragica e di cui parleremo in seguito (si veda il paragrafo 7). La maschera in terracotta è sicuramente derivata da influssi orientali, ma se la maschera ghignante, o orrida, è nata in Sardegna, perché Cartagine l'avrebbe dovuta fare propria ? Abbiamo più che validi motivi per ritenere lecito che Cartagine si lasciasse influenzare da un tipo sardo di maschera: o perché sardi punicizzati giunsero a Cartagine e lì riprodussero un manufatto sardo, o perché i punici riconobbero in quella figura qualcosa che già faceva parte della loro tradizione rituale.


Fig.10. Maschera ghignante rinvenuta in una tomba punica a Tharros (OR), datata al V sec. a.C.
Oggi esposta ad Oristano, all’Antiquarium Arborense

Dobbiamo osservare anzitutto che l'areale di diffusione della maschera ghignante è quello dell'impero punico arcaico (Tunisia, Sicilia, Sardegna, Ibiza) ma la presenza è numericamente rilevante solo in Sardegna e in Tunisia! Questo fatto deve far riflettere: se davvero il centro di irradiazione fosse stato Cartagine, avremmo dovuto trovare riscontri in tutto l'impero punico. Inoltre le maschere sarde, come osserva Ciasca, presentano una varietà addirittura maggiore rispetto alle maschere cartaginesi !

La città più "fenicia" dell'Isola, S.Antioco, non ha finora restituito alcuna maschera ghignante! Alcune maschere sarde presentano una peculiarità, solo parzialmente riscontrabile anche nelle maschere di Cartagine : si tratta dei motivi circolari raggiati presenti sulla fronte e su altre parti del viso nella maschera, la cui funzione non è nota. Tali "decori" sono assenti nella maschera di Mothia e in quelle di area Iberica. Questo fatto rafforza ulteriormente l'ipotesi dell'origine sarda di tale simbolismo, ma, se volessimo andare ancora oltre, potrebbe anche essere la prova della paternità sarda di questa tipologia di maschera, fatta propria dai punici !
In fatto di maschere i Cartaginesi dipendevano comunque da modelli esterni
(1), per cui non sarebbe inverosimile ammettere la nascita in Sardegna della maschera grottesca poi esportata, col tramite punico, in tutto il bacino occidentale del Mediterraneo.


1 - Altre 2 tipologie di maschere puniche in terracotta, non trattate nel presente studio, sono di riconosciuta derivazione da modelli greci !

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Un abbinamento improponibile


Fig. 11. Maschera in terracotta grottesca del tipo “negroide”, VI sec. a.C., rinvenuta a Tharros (OR).
Oggi al British Museum.

I Siciliani non hanno alcuna difficoltà a vedere nella loro mascherina di Mothia la rappresentazione del riso sardonico(1). In Sardegna questo accostamento sarà difficilmente "osato". Come abbiamo visto il riso sardonico fa evidente riferimento ai sardi nuragici e non può in alcun modo essere associato alle maschere fenicie: varrebbe a dire che furono i fenici ad essere influenzati dai sardi, a tal punto da utilizzare fin dentro la capitale della fenica d'occidente, Cartagine, un rituale sardo ! La maschera ritrovata a Mothia, ancor più che a quelle cartaginesi, è incredibilmente simile a quella di S.Sperate e quindi va assolutamente sottolineata la vicinanza fra la manifattura di Mothia e quella sarda prima ancora che l'accostamento mothia-Cartagine !


Fig. 12. Maschera punica,
da Cartagine, V-IV sec. a.C..
Pubblicata sul Web

La somiglianza è tale che siamo probabilmente di fronte a prodotti dello stesso artista, che ha curato maggiormente la maschera di S.Sperate, forse con aggiunte richieste dal committente che non risultano presenti in altre maschere extra-Sardegna. Non dobbiamo trascurare poi il fatto che in base alle datazioni "ufficiali" delle maschere, quella sarda e quella di Mothia vengono collocate in un perioco compreso fra VI-V sec. a.C., quella Cartaginese più simile tipologicamente (fig. 12) è datata fra V-IV sec. a.C.!(2))


Fig. 13. Maschera ghignante,
da Cartagine; VII-VI sec. a.C.

Cosa rappresentano effettivamente queste maschere ? Abbiamo dei volti caratterizzati da rughe profonde, presumibilmente vecchi quindi (noi vediamo i segni dell'età piuttosto che tatuaggi in quelle incisioni lungo le guance e lungo la fronte) ! L'espressione del volto è detta "ghignante"; si tratta di un sorriso forzato, a "denti stretti".
Sono quindi la più nitida, evidente, inequivocabile rappresentazione plastica del "riso sardonico" !


Fig. 14. Maschera negroide,
da Cartagine; VII-VI sec. a.C.

Potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza ma le corrispondenze sono troppo evidenti. Le maschere sono state ritrovate tutte in ambiente considerato fenicio-punico e Cartagine, come abbiamo visto, è uno dei luoghi dove alcuni autori ambientavano i riti sacrificali dove era possibile vedere le vittime "ridere amaramente" prima della morte. Ci insospettisce molto quella confusione (che vede come interpreti, come già detto, fra gli altri autori classici, Clitarco e Filosseno) fra sardi e punici, fra rituali sardi e rituali fenici, soprattutto se rimaniamo eccessivamente aderenti alle lezioni fornite dagli studiosi tradizionalisti: i sardi indigeni non condivideva nulla con i fenici e tantomeno con i greci, erano barbari !
Recenti studi prospettano altre possibili verità sulla natura degli indigeni isolani nostri progenitori. Molti ormai ritengono che una delle etnie che ha generato la civiltà nuragica fosse di origini levantine: lo riconosce in parte la genetica, gli studi antropologici sui resti scheletrici e soprattutto le recenti rivoluzionarie scoperte di Gigi Sanna sulla scrittura e la religiosità delle genti sardo-nuragiche.
(3)


1 - Valentina Pagano, Mozia: il riso sardonico della maschera ghignante, tratto da arkeomania.com: «Nell’isoletta di Mozia, colonia fenicia dell’VIII sec. a.C., a poco più di cento metri dalla necropoli arcaica si trova il cosiddetto tophet (…), il santuario dove venivano sacrificati alle divinità Baal Hammon e Astarte i primogeniti maschi ancora in fasce, le cui ceneri erano poi conservate in vasi di terracotta. Questo santuario, oltre a steli, vasi, statuine, ci ha regalato, oltre all’ormai famosa “Maschera ghignante” (VI sec. a.C.), alcune protomi fittili. (…). La maschera rinvenuta a Mozia appartiene al tipo grottesco, la cui peculiarità sono i lineamenti del volto distorti e modificati. Nelle colonie fenicie fondate nel Mediterraneo occidentale esemplari appartenenti a questa tipologia sono alquanto frequenti; ne sono stati ritrovati a S. Sperate (Cagliari), a Tharros, a Cartagine e ad Ibiza (A. Ciasca, I Fenici, Bompiani). L’affinità della maschera di Mozia con quelle cartaginesi, dovuta all’uso della stessa tecnica per la realizzazione della bocca con fori agli angoli e delle orecchie forate, testimonia l’esistenza di precisi rapporti con la città di Cartagine. Alcuni studiosi vedono nel volto contratto della maschera ghignante il cosiddetto sorriso sardonico, quella particolare espressione “che doveva dimostrare gioia nel momento in cui si offriva alla divinità la primizia - il figlio maschio primogenito - ma che nello stesso tempo esprimeva immenso dolore” (A.Vita, I Fenici alla luce degli ultimi ritrovamenti di Mozia e di Marsala, Edizioni Campo). Quasi tutti concordano, però, nell’attribuire alla maschera per la sua aggressività e il suo aspetto demoniaco una funzione apotropaica (dal greco apotrépo, allontano; apotrópaios, che allontana i mali), termine che gli antichi attribuivano ad oggetti deformi e grotteschi, in grado, cioè, di distogliere lo sguardo nemico».

2 - S.Moscati - direzione scientifica di, AA.VV., I Fenici, Bompiani, Milano 1988, p.565

3 - G. Sanna, Sardôa Grammata, ed. S'Alvure, Oristano 2004

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I culti sacrificali antichi Medio-orientali


Fig. 15. Maschera punica,
da Cartagine,
in S. Lancel, Carthage, a History, p. 60

Riportiamo un'ampio stralcio di un articolo di S. Quinzio sulla leggendaria pratica fenicia del sacrificio di fanciulli :
"I fanciulli venivano immolali alla dea Tanit e al dio Baal Hammon. Autori classici e numerosi passi dell'Antico Testamento affermano che questo tipo di sacrificio era molto diffuso, e pare che Fenici e Cartaginesi vi ricorressero soprattutto nei momenti di maggior pericolo, come guerre e pestilenze, per ottenere con mezzi sacri di più intensa efficacia l'aiuto degli Dei. La Bibbia indica con il termine Moloch, anziché questo particolare sacrificio che le fonti fenicio-puniche denominano molech (o molch), la divinità alla quale veniva offerto.


Fig. 16. Maschera ghignante,
da Ibiza; V-IV sec.a.C.

Vi ritorna spesso, accompagnata da espressioni di indignazione e di condanna, l'espressione "far passare per il fuoco" ì figli. Si trattava infatti di olocausti, in cui la vittima veniva completamente bruciata. Secondo Geo Widengren, "in area semitico occidentale (ivi compresa l'israelitica) i sacrifici di bambini sono straordinariamente frequenti". C'è a questo proposito, nella Bibbia ebraica, la sconvolgente affermazione del profeta Ezechiele, che fa dire a Dio in riferimento al popolo ebreo:"Diedi loro statuti non buoni e leggi per le quali non potevano vivere. Feci si che si contaminassero nelle loro offerte, facendo passare per il fuoco ogni loro primogenito, per atterrirli, perché riconoscessero che io sono il Signore" (Ezechiele, 20, 25-26). Qui il "far passare per il fuoco" non è più considerato un uso idolatrico cananeo al quale gli ebrei indulgessero in un colpevole sincretismo, ma una paradossale prescrizione della legge data dall'unico Dio.


Fig. 17. Maschera punica del II sec. a.C. proveniente dall’insediamento Iberico di Mas d’en Gual, nel municipio di Tarragona.
E’ rilevante il fatto che il ritrovamento sia stato effettuato in un contesto archeologico non punico ma indigeno dell’area Iberica. Secondo l’equipe che ha effettuato la sorprendente scoperta, non sarebbe frutto di scambi fra iberici e punici.

Forse la "consacrazione" dei primogeniti e il loro "riscatto", di cui ci parlano i libri dell'Esodo e dei Numeri, sono regole rituali che vennero a sostituire una precedente vera immolazione alla Divinità, quale compì il giudice Iefte con la propria figlia (Giudici, 11). Malgrado le apparenze, l'episodio del sacrificio di Isacco richiesto da Dio ad Abramo suo padre sembra invece implicare con la sua assoluta eccezionalità e la sospensione finale dell'uccisione, come ha scritto Mircea Eliade il riconoscimento dell'enormità, dell'assurdità di un simile sacrificio"(1).


Fig. 18. Maschera di terracotta di epoca punica appartenente al tipo “grottesco”. Ritrovamento nella zona di Trebujena nella provincia di Cadice (Spagna sud-occidentale).
Immagine pubblicata in webjerez.com

Sempre dello stesso articolo è utilissimo soffermarci su un'altra riflessione :
"Una presenza importante e inquietante è (…) nella vita religiosa fenicia, quella delle divinità che muoiono e poi ritornano in vita: Melqart, Eshmun e, più celebre di tutti, Adonis, il giovane cacciatore bellissimo ucciso da un cinghiale e compianto annualmente in rituali di lutto, durante i quali tornava a vivere immortale. Le morti e resurrezioni divine fenicie non sembrano ricalcare soltanto, come altre analoghe, il modello ciclico delle rinascite stagionali della vegetazione, ma sembrano piuttosto legate alla divinazione degli antenati defunti. Questo ritorno in vita delle divinità morte, almeno in parte sottratto alla scansione fatale dei ritmi cosmici, ci appare meno lontano dalla morte e resurrezione di Gesù, l'uomo-Dio, la fede nel quale è pur nata fra i cugini ebrei, nella vicina terra ebraica"
(2).
Il passo sottolineato trova importanti riscontri nelle credenze religiose dei sardi nuragici, come provano gli studi di G.Sanna a seguito della traduzione e interpretazione degli eccezionali documenti bronzei di Tzricottu
(3).


1 - S. Quinzio, Quei fanciulli passati per il fuoco, nella rivista La Stampa: Ecco i Fenici, pp. 65-67

2 - S. Quinzio, Quei fanciulli passati per il fuoco, cit. p. 67

3 - G. Sanna, Sardôa Grammata, op. cit., in particolare si vedano le pp. 108-112

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Caricature o ritratti ?


Fig. 19. Maschera punica ritrovata nella necropoli
di Puig des Molins a Ibiza.

Le maschere fenicio-puniche cosiddette "grottesche" si distinguono tra "ghignanti" e "negroidi". Le due tipologie hanno in comune l'essere prive di barba e capelli (capo completamente rasato) e la smorfia strana nel viso, che diviene vera e propria espressione ghignante anche nell'esemplare sardo "negroide" riprodotto in fig. 11.
Perché le due tipologie hanno dei tratti comuni così caratterizzanti ?
Le maschere grottesche sono istantanee di espressioni che è difficile vedere sul volto di persone normali, ma che è comunque possibile vedere o imitare. Si tratta allora di ritratti o di caricature surreali ?
Per quanto concerne le maschere ghignanti, non possiamo escludere che potesse trattarsi di ritratti, perché l'espressione di quei volti l'abbiamo vista tutti, almeno una volta nella vita, in faccia non tanto allo "scemo" del paese, ma al folle cronico incontrato per strada, o in clinica, o visto in TV. E se questa tipologia di maschera è il ritratto di un folle è molto più facile attribuire il tipo di maschera detto negroide a qualche altro tipo di umanità, molto più comune nelle nostre case e, probabilmente, nelle case dei nostri progenitori, rispetto agli uomini di razza negra. Sono i malati di "mongolismo" in generale o di forme di anemia in genere molto invalidanti e che conferivano tratti somatici estranei ai tipi normali (la maschera in fig. 11 non ha niente di "negroide"), tanto che probabilmente anche quella diversità era vista come dovuta ad influsso divino !
E' risaputo il fatto che i pazzi in alcune civiltà del passato venivano considerati come esseri privilegiati nel rapporto uomo-divinità e a loro si attribuiva una maggiore vicinanza agli dei rispetto agli uomini comuni.
Il sacrificio dei vecchi in Sardegna era praticato, in alcuni luoghi
(1)
, con la contemporanea ingestione di un'erba che insieme agli effetti letali doveva conferire ai volti un'espressione ghignante : l'obbiettivo principale del rituale era affrontare con scherno la morte (se non spontaneamente, almeno nei fatti), ridere di essa, perché la morte era il tramite necessario per la nuova vita !
Il "riso sardonico" nelle maschere ghignanti e in quelle negroidi è forse la prova che le due tipologie di maschere venivano utilizzate nello stesso rituale, le due maschere rappresentano in sintesi i tre tipi di umanità più adatti per il sacrificio: i vecchi, i pazzi e i "diversi" in genere. La pazzia consentiva di affrontare il sacrificio con minor coscienza e quindi sofferenza: è lecito pensare che da un certo momento in poi la pratica del sacrificio dei vecchi abbia portato alla sostituzione di questi ultimi con malati mentali o malati in genere !


1 - le testimonianze parlano di differenze locali nei rituali in ambito isolano

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La maschera nella tradizione sarda

Anche i sardi nuragici conoscevano l'uso della maschera.
E' questo un argomento poco trattato forse perché ignorato dai più, anche fra gli accademici.
Dobbiamo ad A. Demontis la segnalazione dell'uso di maschere in età nuragica, o per lo meno di rappresentazioni di guerrieri con maschera facciale
(1). La Demontis li chiama proprio guerrieri mascherati e sembra cogliere nel segno rispetto a tutti i precedenti interpreti di tali bronzetti, che hanno attribuito ad essi vari appellativi : extraterrestri, loschi figuri, demoni, a quattr'occhi e quattro braccia.
L'accostamento non è pertinente con riferimento al particolare uso della maschera ma lo è proprio con riferimento all'esistenza dell'oggetto nell'ambito della cultura nuragica !
La maschera era quindi nota in ambito pienamente nuragico; era realizzata in materiale resistente ma deperibile: presumibilmente legno, materiale con cui ancora oggi si realizzano le maschere tradizionali del carnevale del centro Sardegna, ma anche sughero, materiale impiegato fino a qualche secolo fa più del legno per la realizzazione delle stesse maschere carnevalesche.
Le maschere nuragiche (che dovrebbero comunque precedere almeno di alcuni secoli quelle trattate nel presente studio) non ricordano le maschere ghignanti puniche; ma da queste ultime sono altrettanto distanti le maschere ritrovate in madrepatria fenicia. Fa eccezione il supporto, in terracotta, anche se l'uso in entrambi i casi doveva essere analogo, cioé non abituale ma rituale !
Quel costume degli antichi abitanti della Sardegna tramandatoci dai Greci
(2), di cui cerchiamo qualche spiegazione o qualche residua prosecuzione in alcuni antichi racconti del centro Sardegna, in realtà forse è tanto diffuso nel nostro costume che proprio per questo stentiamo a vederlo e a riconoscerlo. Il mezzo che ci consente la corretta associazione sembra proprio la maschera e le tante cerimonie che si servono di personaggi mascherati! Nelle varie manifestazioni del Carnevale sardo (carrasegare = lacerare/sbranare la carne viva !(3)) sono state riconosciute rappresentazioni dei cosiddetti culti Dionisiaci, che rimanderebbero quindi a forte antichità. Tali culti, legati alla rinascita primaverile della natura dopo la morte autunnale, come abbiamo già visto erano particolarmente diffusi anche nelle culture semitiche.
Potremmo allora fantasticare sull'uso della maschera ghignante in ambito arcaico : quel ridere della morte di bambini, di vecchi e di giovani malati non sembra proprio la rappresentazione del desiderio che il male non interferisca con la vita ultraterrena del defunto, ma sembra proprio quello che vediamo : la rappresentazione della certezza che la vita vincerà sulla morte, che alla falsa morte, di fronte alla quale si può ridere, seguirà nuova florida vita !


Fig. 20. La maschera di Tharros della fig. 10 vista da altra angolazione.
E’ possibile apprezzare la forma che consentiva di circondare interamente il volto di chi la indossava. E’ evidente il motivo tatuato sulla sottoguancia destra.

Il cristianesimo, la nuova religione, ha profondamente modificato nei credenti l'atteggiamento di fronte alla morte : la certezza della vita eterna per coloro che abbiano condotto un'esistenza improntata nel rispetto dei comandamenti divini non è sufficiente perché i vivi gioiscano del loro trappasso. E' sicuramente innata nell'uomo la sofferenza di fronte alla morte di un proprio caro, ma la religione precristiana in Sardegna evidentemente chiedeva una partecipazione gioiosa dei vivi ai riti funerari. Restano di questo fatto leggerissime tracce, ma molto significative, nei carnevali tradizionali sardi, che sono la continuazione dei riti pagani, declassati dal cristianesimo a sfilate in maschera gioiose ma ancora fortemente segnate dall'impronta dell'antica religione isolana.
Dolores Turchi ha raccolto e catalogato in tanti anni le diverse espressioni del carnevale sardo.
A proposito di quello di Bolotana, con il fantoccio Zorzi che veniva bruciato l'ultimo giorno di carnevale, la scrittrice ricorda un "lamento funebre ironico, che veniva cantato sul tono delle laudi sacre (sos gogos). (…) E' particolarmente significativo il contenuto di tali gogos. In essi si esorta la vittima a non piangere perché, anche se morrà (in genere la fine è sempre il rogo), tornerà fra gli uomini il sabato santo, vale a dire risorgerà quando risorge Cristo"
(4).
Nel carnevale di Lula, ormai scomparso da oltre 60 anni, la maschera più importante era chiamata "su battileddu", parola che rivolta ad una persona ha il significasto di buono a nulla, folle. La vittima di questo carnevale era proprio su battileddu, il folle!
Dice la Turchi: "Quando il gruppo si fermava cantava canzoni volgari e improvvisava versi in rima, e ogni tanto, durante il percorso le maschere si sedevano per terra e facevano un gioco chiamato "pizzica e non rie" (pizzica, ma non ridere). Sedute formavano un cerchio e ciascuno pizzicava il battileddu tinto di fuligine e ripeteva: "pizzica e non rie". La fuligine di cui si imbrattavano le dita la sfregavano sul viso dei compagni vicini e ciò veniva fatto in silenzio con serietà, senza ridere, quasi si trattasse di un rito. Se qualcuno non riusciva a trattenere le risa subiva una penalità: doveva offrire da bere a tutti i partecipanti al gioco"
(5).
Si riesce ad intuire il perché, rispetto ai culti precristiani, sia scomparso nel repertorio delle maschere del carnevale sardo il riso sardonico ! E' naturale per l'uomo temere la morte, avere orrore di essa! Anche gli antichi isolani destinati al sacrificio, pur profondamente credenti, non riuscivano ad affrontare il rito col sorriso sulle labbra, tanto che era necessario ricorrere alle famose erbe ! Anche la religione cristiana, pur sostenendo la risurrezione delle anime, dà risalto alla straziante sofferenza, tutta umana, del Cristo crocifisso !
E' però sopravvissuta inconsciamente la maschera genericamente "grottesca", che in alcuni casi assume indubitabilmente l'espressione ghignante; sono tali molte delle maschere antropomorfe del carnevale sardo : il merdule e sa filonzana di Ottana o il Mamuthòne di Mamoiada. Sono molto vicine figurativamente e concettualmente alle maschere grottesche fenicio-puniche, come spiega bene D.Turchi: "Mamuthhònes e maimònes sono maschere particolari, presenti soprattutto nella Barbagia e nell'Ogliastra, ma un tempo la loro area di diffusione doveva essere ben più vasta, perché anche nei paesi ove queste maschere non compaiono più è rimasto il nome a designare un povero scemo o uno spauracchio (…) Ma mentre il maimòne è il semplice seguace di Dioniso che nel travestimento cerca di assimilarsi a lui, il mamuthone rappresenta invece il dio stesso durante la sua passione, come nei misteri dionisiaci, il dio che nasce e muore ciclicamente"
(6). "La pazzia non era un difetto tra i popoli medio-orientali, poiché significava che l'individuo con alterazioni mentali, era il prescelto, il posseduto dal dio; per questo alla divinità si offrivano tali vittime, ritenute di suo gradimento"(7).
Una delle aree nell'isola in cui si è conservato il ricordo di riti pagani, rappresentati nei carnevali tradizionali, è l'area di Bosa
(8). Lì è particolarmente vivo il ricordo di riti sanguinari, con il coinvolgimento di piccole vittime. Il rito nel suo complesso è comunque molto simile a quello di altre località, considerate ben più conservative di questa: Bosa è ritenuta una delle prime colonie fenicie della Sardegna (9)!
E' stato di recente pubblicato un libro con le poesie del gesuita Bonaventura Licheri, vissuto nel 1700
(10). Lo presenta così Dolores Turchi in un articolo apparso su Sardegna Mediterranea(11) : "Molte delle poesie in esso contenute sono veri e propri documenti sulla vita che si conduceva in Sardegna nel XVIII secolo e della tenace e appassionata predicazione che il gesuita piemontese Giovanni Battista Vassallo faceva nel centro dell'isola per evangelizzare un popolo in buona parte ancora pagano. Tra i componimenti del Licheri (…) si trovano anche diverse poesie di rilevante importanza antropologica per il loro contenuto; tra queste la descrizione delle maschere carnevalesche di vari paesi sardi che dovunque replicano il loro rituale di morte. (…) In una delle ultime poesie riportate da Eliano Cau in questo libro (…) il Licheri (…) si lamenta del cattivo operare della sua gente (…) ed enuncia quelli che sono i peccati più gravi. Tra i mali peggiori c'è l'utilizzo, come vittima carnevalesca, del folle"; la traduzione del passo, proposta in nota, è la seguente "Non si assoggeti alla condanna a morte il povero disgraziato che non è in grado di intendere e teme e si nasconde; va guarito con preghiere perché è invasato, non va ucciso. Né deve essere vestito di pelli e immesso nell'infernale corte (delle maschere) per pestarlo fino a morirne, come fosse reo. Di che cosa, Dio mio! Anime innocenti, conciate in sembianze di brutti serpenti, smarrite, spinte fuori di sé dal demonio e da questo vinte con euforbia e cicuta. Il paese è distrutto !"
E' importante il fatto che le maschere ghignanti sarde siano state ritrovate a S.Sperate e a Tharros piuttosto che a S.Antioco (la città più fenicia in terra sarda).
Non abbiamo nulla di simile nella Sardegna dell'interno ma questo non è un vero problema : ben poco ci è giunto delle produzioni artigianali sarde dalla zone interne dell'isola dopo il VII° sec. a.C.
Un'obiezione che può essere sollevata a seguito di queste asserzioni è che nel carnevale sardo un ruolo importante, in alcuni casi preminente, è svolto dalle maschere cornute, che evidenziano il ruolo sacro svolto dal toro, o dal bue, o dalla capra e così via.
A Cipro contemporaneamente all'uso delle maschere grottesche è attestato l'uso di maschere costituite da crani di bovino. Le stesse maschere sono presenti in alcuni dipinti in area Iberica. Mentre a Cipro alcuni crani di tale animale sono stati trovati, in Spagna ciò non è avvenuto! In Sardegna le tombe fenicio-puniche normalmente non hanno restituito gli scheletri dei defunti …. L'eventuale presenza di ossa di animali avrebbe dato lo stesso esito delle ossa umane! Non possiamo cioè escludere che nelle cerimonie cultuali sarde nella prima metà del I millennio a.C. (e neppure in quelle puniche) fossero presenti maschere "cornute", dobbiamo al contrario supporre che fossero comuni e che purtroppo non siano sopravvissute, insieme a tutte quelle fatte con altri materiali deperibili.


1 - A. Demontis, Il Popolo di Bronzo, Condaghes, Cagliari 2005, pp. 126-139

2 - Il sacrificio degli ultrasettantenni che si confonde, da un certo momento in poi, col sacrificio di fanciulli.

3 - D. Turchi, Maschere, miti e feste della Sardegna, ed. della Torre, Roma 2005, p.103

4 - D. Turchi, Maschere, op. cit., p. 94

5 - D. Turchi, Maschere, miti e feste…, op. cit., p. 117

6 - D. Turchi, Maschere, miti e feste…, op. cit., p. 21

7 - D. Turchi, Maschere, miti e feste…, op. cit., p. 53

8 - D. Turchi, Maschere, miti e feste…, op. cit., pp. 99-100

9 - A mio parere anche in tal caso erroneamente, così come per Tharros e per molte altre località isolane pre-puniche.

10 - Eliano Cau a cura di, Deus ti salvet Maria, S’Alvure, Oristano 2005

11 - D. Turchi, Perché il carnevale sardo è dionisiaco, Bonaventura Licheri e le maschere del ‘700, in Sardegna Mediterranea, aprile 2006, pp. 3-10

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Le "piccole" maschere ghignanti


Fig. 21. Amuleto in osso a maschera negroide
Museo Nazionale di Cagliari.
In : E. Acquaro, Arte e cultura punica in Sardegna, Carlo Delfino editore, Roma 1984, p. 109

Riportiamo alcune altre riflessioni di A. Ciasca relative alle ipotesi avanzate sull'uso delle maschere in età fenicio-punica: "Per la specifica funzione di protomi e maschere, sono state espresse opinioni in parte diverse. Le protomi, che rappresenterebbero divinità, vengono classificate fra gli oggetti votivi nei santuari e fra le immagini tutelari del defunto nelle tombe. Per le maschere, le aperture in corrispondenza di occhi e bocca ne indicherebbero l'uso su esseri viventi: alcune, di grandezza naturale, potevano venire indossate da sacerdoti o devoti nel corso di cerimonie o rappresentazioni religiose (…) altre più piccole erano applicate a simulacri o statue; per quelle del tofet di Mothia è stato suggerito che coprissero il volto delle vittime del sacrificio"(1)
Le dimensioni della maggior parte delle maschere orride rappresentano un ulteriore problema sul quale si sono dibattuti gli studiosi: perché sono normalmente così piccole?
La risposta che danno i più è in apparenza la più ovvia ma non è assolutamente la più ragionevole: date le dimensioni le maschere non potevano venire indossate !
Se non avessero avuto quella funzione le dimensioni sarebbero potute essere le più varie, grandi e piccole, a piacere a seconda delle richieste della committenza. Anzi ci saremmo aspettati esemplari anche molto grandi e molto ricchi. In realtà oltre ai piccoli amuleti in osso riproducenti volti ghignanti, le maschere in terracotta hanno dimensioni pressappoco simili: lunghezze variabili dai 16 ai 20 cm.


Fig. 22. Frammento di vaso “nuragico” dell’età del ferro con vari motivi “solari” ?

La domanda corretta da porsi a mio parere è quindi la seguente :
"perché tali maschere hanno tutte dimensioni leggermente più piccole del naturale perché potessero essere portate da un adulto ?".

La risposta c'è e sta proprio nella domanda: può sembrare macabra ma a ben guardare risulta plausibile, in base alla già vista testimonianza di Filosseno, alle ampie testimonianze raccolte da D.Turchi e alle ipotesi avanzate sull'uso della maschera di Mothia.
Le maschere non potevano essere indossate da un adulto ma i fori di sospensione laterali, in posizione analoga a quelli delle maschere carnevalesche, provano che tali maschere potevano venire tranquillamente sospese al capo di qualcosa o, meglio, di qualcuno: un bambino e neppure di tenerissima età! Non sappiamo il perché della maschera e, dalle considerazioni fatte in precedenza, non crediamo che normalmente fossero i bambini ad essere portati al sacrificio. E' più logico pensare che la cerimonia che culminava col ben noto sacrificio del vecchio (o del pazzo-scemo), venisse caratterizzata dalla processione dei fedeli al seguito o del bambino mascherato o della vittima sacrificale; alla morte del vecchio seguiva la rinascita, con la deposizione della maschera e la manifestazione della nuova vita rappresentata dal vero volto del fanciullo !


1 - A. Ciasca, Le protomi e le maschere, op. cit., p. 354

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Conclusione


Fig. 23. Menir “Mariarabiosa” a Villaperuccio (Ca) con un motivo del tutto simile a quello sulla guancia della maschera ghignante di Tharros visibile in fig. 20.

La gran parte delle maschere "grottesche" sarde, e tutte quelle "ghignanti", ad eccezione di quella di S.Sperate, sono state ritrovate a Tharros e questa è una circostanza che deve far riflettere.
Alcuni studiosi ritengono che Tharros "nuragica" fosse la Tarshish biblica, la Tartesso di Erodoto ! Fra questi si impone per autorevolezza G.Sanna che, sulla scorta delle fondamentali scoperte documentarie effettuate in terra sarda, comparate con i testi classici, i testi biblici, i dati archelogici, ecc, non ha dubbi :
"(…) tra l'VIII ed il V secolo a.C. (…) i capi šrdn o 'signori giudici' non erano certamente venuti meno e scomparsi dalla scena politica e militare : erano ancora attivi e potenti se riuscivano a mantenere comunque il controllo dell'Isola, anche quello delle città delle coste, di quelle città 'fenicie' nelle cui tombe ed abitazioni gli archeologi scoprono da tempo 'stranamente' amuleti ed oggetti di stretta cultura nuragica. In queste città sarde di fatto se non di diritto, evidentemente i rapporti politico-sociali fra fenici e sardi (che poi erano facilitati da legami di sangue e di lingua) erano più frequenti di quanto si sarebbe indotti a credere"
(1).
In un altro articolo
(2) ho sviluppato a modo mio questa tesi e verificato come la corrispondenza Tarshish - Tharros sia da ritenersi valida fino a tutto il VI sec. a.C.
Furono i cartaginesi a porre fine all'indipendenza della più gloriosa città sarda, che da tempo intratteneva rapporti commerciali con il vicino oriente, anche in virtù dei suddetti legami etnico-linguistici con quelle terre !
Tharros era anche punto d'incontro e luogo di fusione dei due principali gruppi etnici dell'occidente: quello mediterraneo-cananeo e quello indoeuropeo.
E fusione c'è stata, oltre che etnica anche culturale, con esiti "nuovi" dal punto di vista della religiosità tanto da risultare simili e diversi allo stesso tempo sia rispetto ai cerimoniali indoeuropei che rispetto a quelli del Vicino Oriente.


Fig. 24. I motivi tatuati della maschera di S.Sperate e di quella di Tharros della Fig. 10 non sono mai presenti nelle maschere di Cartagine. Perché allora dovrebbero essere produzioni nordafricane?

A Tharros i greci avevano libero accesso e libertà di scambio : è uno di quegli scali da dove gli stranieri potevano entrare in contatto con le tradizioni locali sarde. E' uno di quei luoghi dove probabilmente i visitatori ebbero modo di assistere alle cerimonie cruente del "riso sardonico"! E' molto improbabile infatti che visitatori stranieri abbiano potuto assistere alle cerimonie del sacrificio dei vecchi settantenni in luoghi quali il "recinto megalitico di Monte Baranta"(3).
Ecco giustificata la maschera in terracotta "fenicia" in Sardegna, ecco giustificata l'originalità della maschera "ghignante" rispetto a quelle delle terre del levante.
I punici in tal caso, come spesso è avvenuto in molti settori dell'artigianato, furono affascinati dalla manifattura isolana, se non dal cerimoniale che prevedeva l'uso di tali maschere : adottarono l'uno e l'altra, come è anche testimoniato dagli autori classici, e solo in seguito esportarono il tutto nelle altre terre "puniche" dell'occidente
(4).
Questo aspetto è particolarmente interessante e per niente chiaro, anche alla luce dei più recenti ritrovamenti di maschere ghignanti in terra iberica (vedere la didascalia della fig. 17).

Sembra un'enorme forzatura l'accostamento proposto fra maschere ghignanti e mamuthones(5), ma quelle frontiere, magari fortificate, di cui ci parlano molti studiosi, tra mondo barbaricino e zone costiere dell'Isola almeno dal VII sec. a.C., se mai sono esistite, erano più politico-economiche che culturali.
Il riso sardonico richiamava negli antichi un'immagine dei sardi di allora, abbastanza confusa, però rimandava inequivocabilmente alla generalità delle genti isolane indigene !
Le maschere ghignanti sono la rappresentazione più efficace, realistica, drammatica, di quell'oscuro rituale che forse prevedeva l'uccisione dei vecchi, dei pazzi, forse il sacrificio di bambini malati, comunque un rito praticato in Sardegna.

Sull'argomento restano molti punti interrogativi, che fiaccano qualunque presunzione di acquisita certezza.
Fra i tanti voglio evidenziare i seguenti :

  • le modalità di svolgimento del rituale-cerimoniale che culminava nell'uccisione della vittima sacrificale
  • quel qualcosa che poteva motivare e giustificare il sacrificio. L'uccisione dei vecchi era particolarmente diffusa nell'antichità, soprattutto nelle popolazioni nomadi e non solo all'interno di civiltà poco evolute(6). Però nell'ambito di civiltà sviluppate quali la sarda-nuragica, solo una religiosità molto sentita, associata ad una classe sacerdotale molto potente, poteva imporre simili riti sacrificali(7)!
  • il reale significato della maschera. Sembrerebbe, sulla scorta delle tesi di D.Turchi e degli studi di A.Ciasca, che le maschere potessero anche essere rappresentazioni della divinità. Gli studi di G.Sanna sembrano invece escludere questa possibilità; prediligo quest'ultima ipotesi anche se non abbiamo prove definitive al riguardo
  • il destino e il significato delle maschere a cerimonia conclusa

Sono però convinto che lo studio di un prodotto artigianale a cui normalmente si dedica al più uno striminzito paragrafo nei testi di storia fenicio-punica in Sardegna quale è la maschera ghignante, e in particolare la sua diffusione, associata a datazioni dirette sui manufatti, e alla comparazione con le altre maschere e protomi "fenicie" presenti contemporaneamente nell'Isola, meriti ben altri spazi nei trattati di storia e archeologia.


1 - G. Sanna, Sardôa Grammata, op. cit. pp. 55-56

2 - M.Cabriolu, Tartesso, quando la città regina dell’occidente non era un mito della penisola iberica, pubblicato in sardolog.org

3 - G.Ugas, L’alba dei nuraghi, Fabula, Cagliari 2005, p.87

4 - E’ rilevante a tal proposito l’opinione che C. Albizzati si era formato sulla religiosità fenicio-punica: «I Fenici, che si valsero quasi sempre di motivi stranieri anche per l’arte religiosa, praticarono un eclettismo che a volte sembra capriccio, persino nei simboli delle divinità, variando i motivi con tale libertà che talora vien fatto di pensare ad una improvvisazione senza precedenti tradizionali», tratta da C.Albizzati, Sardus Pater, in AA.VV., Il Convegno Archeologico in Sardegna – giugno 1926, Officine tipografiche reggiane, Reggio Emilia 1929, pp. 87-94

5 - Già azzardato per altro da D.Turchi, nell’opera citata Maschere, miti e feste della Sardegna.

6 - Si vedano, solo per limitarci agli esempi deducibili dal II e III libro della Biblioteca Storica di Diodoro Siculo, il caso riportato in II.57.5 degli abitanti della mitica isola di Giambulo e quello in III.33.1-2 dei Trogloditi africani (che pare praticassero una cerimonia sepolcrale che culminava col lancio di sassi sul cadavere accompagnato dalle risate dei “lanciatori”)

7 - E’ quanto si deduce dall’usanza degli Etiopi descritta ancora da Diodoro Siculo in III.6.1-3 dove, a proposito dell’autorità dei sacerdoti e della loro facoltà di ordinare al re di darsi la morte, l’autore giustifica questa pratica dicendo che: «sono gli dei ad aver vaticinato ciò a loro, e l’ordine degli Immortali non deve essere in nessun modo trascurato da un essere mortale; e aggiungono altri ragionamenti, quali potrebbe accettare solo una natura di mente semplice, educata secondo una pratica antica e difficile da sradicare, e che non ha argomenti da opporre a ordini impartiti senza che ve ne sia necessità.Ora in tempi precedenti i re obbedivano ai sacerdoti, non perché fossero sopraffatti dalle armi e neppure dalla violenza, ma perché sui ragionamenti aveva avuto la meglio proprio la superstizione», tratto da Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Libri I-III, a cura di G.Cordiano e M.Zorat, Bur, Milano 2004.

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Bibliografia essenziale
  • AA.VV., L'Antiquarium arborense e i civici musei archeologici della Sardegna, a cura di Giovanni Lilliu, Silvana Editoriale, 1988
  • AA.VV., Il Convegno Archeologico in Sardegna - giugno 1926, Officine tipografiche reggiane, Reggio Emilia 1929
  • E.Acquaro C.Finzi, Sardegna Archeologica guide e itinerari : Tharros, Carlo Delfino editore
  • F.Barreca, La Sardegna fenicia e punica, Chiarella, Sassari 1979
  • E.Contu, La Sardegna preistorica e Nuragica, Chiarella, Sassari 1998
  • A.Demontis, Il Popolo di Bronzo, Condaghes, Cagliari 2005
  • I.F.Fara, Opera 1 In Sardiniae Corografiam, Ed. Gallizzi, Sassari 1992
  • S.Frau, Le Colonne d'Ercole, un'inchiesta, Nur Neon, Roma 2002
  • G.Lilliu, La civiltà nuragica, Sassari 1982
  • S.Moscati, Fenici e Cartaginesi in Sardegna, Il Saggiatore, Milano 1968
  • S.Moscati - direzione scientifica di, AA.VV., I Fenici, Bompiani, Milano 1988
  • G.Pesce, Sardegna Punica, a cura di R.Zucca, Illisso, Nuoro 2000
  • M.Pittau, La Sardegna Nuragica, Libreria Dessì Editrice, Sassari 1980
  • G.Sanna, Sardôa Grammata, ed. S'Alvure, Oristano 2004
  • A.Taramelli, Miscellanea d'archeologia sarda, ristampa anastatica, Gianni Trois Editore, Cagliari 1972
  • G.Ugas, L'alba dei nuraghi, Fabula, Cagliari 2005
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Le maschere
dell'antico carnevale Barbaricino

In questo reportage fotografico di Gabriele Vargiu - realizzato a Mamoiada in una sfilata rappresentativa dei carnevali barbaricini - non cogliamo soltanto il fascino di alcuni flash sulla arcaicità di alcune nostre espressioni culturali, ma, stando attenti alla sequenza, veniamo colpiti da alcune riflessioni che quegli scatti suscitano.
Nel rito antico di ciò che oggi definiamo Carnevale Mamoiadino e, più in generale, Barbaricino, l'uomo interpreta il divino nelle sue rappresentazioni forti naturali attraverso la maschera. Il legno era espressione del divino e il divino si confaceva al volto dell'uomo che ne indossava la maschera. Essa svolge un ruolo di mediazione metamorfica tra l'uomo e il divino principio di potenza e fertilità di cui é simbolo primordiale la protome dell'animale cornuto. Maschera dell'animale aggiogato, della forza che l'uomo si propone di governare, ma anche maschera del domatore, dell'aggiogatore. Maschera scura e maschera chiara.
La trance, il passaggio che il rito richiama, ha inizio già dalla vestizione, dalla preparazione: la maschera di legno, la pelliccia, i campanacci che al minimo movimento preludono al frastuono cadenzato, ossessivo, del corteo bestiale.
In un tempo remoto era per la comunità pastorale e agricola sarda una necessità imprescindibile per la sua propria esistenza interpretare il divino e ingraziarlo. Oggi la riproduzione del rito in epoca di industria turistica pone la comunità Barbaricina e Sarda nella necessità di difenderlo e preservarlo nell'autentico spirito di antica radice culturale. Non relegandolo quindi ad episodicità folklorica paesana ma condividendo con altre espressioni analoghe di stessa matrice- seppur distanti nel contesto territoriale e nelle forme Carnevale(Mamoiada, Samugheo, Orotelli, Ottana etc.) - la voglia di farlo vivere ancora tutto nel suo mistero (non dando adito quindi all' esigenza tutta moderna di analisi definitorie su vari pseudo-accertamenti storico-scientifici delle sue radici); di farlo vivere nella sua forza aggregante - giacché al di là del richiamo turistico è la comunità tutta e i giovani soprattutto a sentirsi intimamente coinvolti nel ruolo del rito - e fortemente connotativa di quella che ancora - grazie a peculiari poche altre cose, tra cui il canto pastorale a tenores - vibra come nostra antica anima di sardi.

Lidia Flore

 

 

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