Incontro con Chiara Vigo |
Andavo a quell'incontro sapendo pochissimo di lei e poco del bisso. Nell'enciclopedia avevo trovato alla voce bisso : filamento sericeo prodotto da un mollusco marino, la Pinna nobilis, conosciuto da tempi antichissimi con cui si tessevano pregiatissime vesti e manti regali. Tutto ha origine dal mare e la Pinna nobilis, o nacchera, così la si nominava nella mia infanzia, era proprio l'emblema di quel potentissimo fascino che il mare, con le sue stranissime creature e il suo esotico e indimenticabile profumo, emanava. Dalla mia infanzia nacchere non ne avevo più viste e neanche il mare da allora profumava più. Mio fratello maggiore ne portava sempre a casa qualcuna dalle sue battute di pesca, perché sapeva che noi piccoli restavamo a bocca aperta nel vedere quell' enorme cozza che aprendosi rivelava il suo grande mollusco misterioso e prezioso in quella strana custodia madreperlacea. E nelle mie estati di bambina, senza l'esperienza di quella creatura aliena, il mare forse non avrebbe generato nel mio immaginario quel richiamo potentissimo che ha poi rappresentato. E
lei, la geniale tessitrice, prendeva da numerose nacchere i bioccoli
di fibra, o meglio ciò che dal loro muco secreto a contatto con l'acqua
diventa fibroso, con delicato lavoro di mani li cardava e poi con un
piccolo fuso di legno ne faceva un filamento. Quel poco che sapevo e
che immaginavo era che questa donna lottava affinché questo
filato preziosissimo -perché raro e particolarissimo- e la sua lavorazione
fossero preservati, custoditi e tramandati a connotare un territorio
di un senso altissimo di sensibilità del bello, di preziosità della
natura. Ma ahimè oggi educare a queste sensibilità proprio nel nostro
territorio e specialmente in ambienti istituzionali, quelli che decidono
l'utilizzo del territorio e delle sue risorse, è lavoro non facile. Per
cui immaginavo Chiara Vigo bussare alle porte degli
assessorati, parlare appassionata davanti a presidenti di commissione,
che, non appena la vedevano uscire dalla porta, pigiavano un tasto della
segreteria telefonica per dire : Avevo cercato quell'incontro a seguito di una fascinazione subita davanti ad un suo piccolo lavoro. Esposto in una mostra di artigianato artistico, a cui capitai per caso, vidi un piccolo arazzo: su di una campitura di lino un piccolo leone alato di colore che sembrava bruno, verdastro, dico sembrava perché se lo guardavo dall'angolo di rifrazione della luce esso non era più bruno ma dorato. Un piccolo gruppo di donne, alcune delle quali giovanissime, m'introdussero nel loro spazio del tessile e mi spiegarono che quel filato cangiante era il bisso, che l'autrice di quell'arazzo era la loro maestra, la quale insegnava loro la tecnica della tintura naturale dei filati -di cui potevo ammirare la splendida gamma lì esposta- e la tessitura. Al centro dello spazio mi soffermai incantata: una giovanissima china al telaio stava per ultimare una piccola figura zoomorfa e con passionale aspettativa indirizzava gli ultimi movimenti delle mani e delle braccia. Mi insinuò un'idea inquietante: che quelle figure, quegli animali, non fossero dei semplici cliché tramandati e riproposti per consuetudine, come avevo sempre pensato, ma che invece fossero gli elementi di una simbologia autentica emergente dalla sensibilità femminile che, dal momento dell'infanzia e dell'adolescenza, fissava la magicità del mondo reale, del sentire, della natura. Mi chiedevo cosa fossero il pavone, le arpie, l'uccello con le ali spiegate, il leone alato, il cervo. Volevo sapere, vi intuivo la simbologia della libertà e della regalità. Le ali, sempre presenti, erano sicuramente espressione di bellezza e insieme strumento di libertà. Ma la maestra in tutto ciò mi avrebbe illuminato. Eppure mi preparavo a quell'incontro avvertendo una specie di timore, di trepidazione. Già percepivo emotivamente ciò che poi avrei focalizzato razionalmente. Seguivo il fascino di un sapere delicatissimo, vastissimo e profondo e al tempo stesso fragile, un sapere che avrebbe potuto sfuggirmi per sempre o che avrei potuto perfino danneggiare. Questo era il mondo dei saperi femminili, che non erano sorretti da codificazioni, dilatati da perizie enciclopediche, lievitati da poteri economici e politici come la maggior parte dei saperi maschili che hanno lunga vita. Questa invece era un'esperienza che per tramandarsi usava ciò che vi è di più sfuggevole e aleatorio : l'emozione. Provavo un'emozione strana scendendo dal piazzale della Basilica per la via del museo. Rivedevo questa volta in modo coinvolgente luoghi che per tre lunghi decenni non mi avevano più parlato. Poter accedere ora al fulcro di Sant'Antioco, la sua anima, la sua arte, mi obbligava a ricordare e confrontare. Un treno che arrivava al mare, allora generoso, al lido, tanti bambini felici, rumori, colori, sono immagini dai miei ricordi d'infanzia. In quei tempi il suo cuore pulsante erano due viuzze che dal molo portuale -dove attraccavano grosse navi commerciali per caricarsi di vino e formaggio principalmente ma anche di manufatti di alto pregio- salivano fino a castello : Via Cavour e Via Eleonora d'Arborea dove fiorivano botteghe d'arte e lavorazioni che i maestri tramandavano ad allievi e allieve. E così si affacciavano al mare i lavori del maestro bottaio, del "maistu 'e carrus" che costruiva carri e ruote, del maestro d'ascia, dell'intagliatore di mobili d'arredo, del "maistu 'e filettu e prama" -era il maestro nella preparazione e lavorazione delle foglie della palma nana per la produzione di cordame e fondi per sedute-, del maestro del ferro battuto che realizzava balconi e ornamenti, e poi vi erano le sartorie e i laboratori di produzioni tessili pregiate : dall'arazzo -che prendeva le vie del mare con destinazioni verso città europee- a produzioni veramente sfiziose come l'impressione di polvere di vetro sulla seta dei fazzoletti che le donne usavano, nel costume paesano, far scendere dal collo e impuntare sul petto, lavorazione che rendeva fluorescente il disegno per le occasioni notturne. La ferrovia, parallela al limite del mare, fendeva questa brulicante vitalità. Proprio davanti alla stazione un antichissimo lavatoio era il centro di raccolta e trasmissione delle news di allora, donne a tutte le ore si incontravano per il bucato ed ogni respiro del paese veniva esaminato e divulgato. Donne, ma dire donne a quel tempo voleva dire anche bambini, e infatti erano lì davanti a loro e tutt'intorno, giocavano sulla terra a pincareddu -su di uno schema di rettangoli tracciati si faceva avanzare un sasso piatto spingendolo a saltelli con un piede- e con le trottole di legno. Davanti alle donne, davanti ai bambini, davanti ai maestri e ai lavoranti, vi era il mare e il proficuo connubio con la sua vitalità, le barche dei pescatori e il continuo via vai dello smercio. E se era di Settembre si aveva l'allegra visione del lungo bagno al mare di centinaia di botti le cui fibre si sterilizzavano e si tonificavo per prepararsi all'ingravidamento dei vini. Nei miei ricordi più recenti emergevano visioni diurne di un lungomare deserto. Bambini non se ne vedono più, il lido è scomparso, gli adulti amano sostare al chiuso nei bar e nei market, in quei luoghi di omologazione dove si discute o si compra ciò che è totalmente estraneo alla comunità e non necessario. La fabbrica di magnesio, che aveva fumato per venticinque anni i suoi residui proprio sulle abitazioni, incombe ancora prepotente con la sua sagoma sovrabbondante di lamiere ed eternit e, dilatando un senso di morbosità, insquallidisce le potenzialità estetiche del luogo. Lo sviluppo turistico mi dava invece immagini notturne : una frotta di camerieri che per un mese all'anno si prostra sui tavolini del corso, la concorrenza fra la musica techno e quella latino-americana che dai vari locali fa da esca al fiume notturno di passanti. Avevo lasciato l'auto nell'inopportuno parcheggio situato sul piazzale antistante la Basilica così del tutto anonima anche grazie agli infelici restauri. Un fondo di silenzio e sgomento mi accompagnava oltre lo stridore del traffico continuo. Immaginavo quale centro importante di spiritualità, e poi soprattutto di potere, fosse la Basilica in un tempo molto lontano. I prelati erano allora i padroni della tessitura, in locali adiacenti alla chiesa avevano i telai dove le ragazze fin da piccole venivano avviate alla specializzazione per servire l'intera comunità territoriale. Chiesi ad un signore, che vidi oltre i vetri del museo, se la casa di Chiara Vigo fosse quella di fronte, col balconcino su cui gocciolavano dei teli stesi. Sorridente assentì. Sulla quarantina, con tratti marcatamente
mediterranei, Chiara mi fece accomodare subito nella stanza del
telaio che riposava quasi completamente smontato. La
lasciai sfogare non senza far esprimere al mio volto segni di sconcerto
e condivisione. Ma poi le chiesi subito di spiegarmi cosa non le venisse
dato, riconosciuto, e da chi. Si allontanò svelta porgendomi poi dei
fogli : Proposta di Legge Regionale, stralcio del verbale del Comitato
Regionale Pesca, articoli di giornale. Avevo subito capito di cosa si
trattava. Lo mise giù, e si sentì così un miagolio
di disappunto, per farmi ammirare un piccolo arazzo. Era l'unica concreta
reliquia, mi disse, oltre al telaio, lasciata a lei dalla Nonna. Divagammo sulla creazione dei colori dell'arazzo.
Provavo un'autentica e forte ammirazione ad ascoltare Chiara
e sentire il fiume in piena delle sue parole dava il contatto di acque
fresche di torrente montano dopo aver proceduto per cammini stancanti
e soffocanti di calura. Questa sua visione della conchiglia ci
riportò entrambi al bisso. Io le spiegai allora il vero motivo del mio
interesse, dissi della mostra, del leone alato. Si allontanò, avvicinandomi
poi il preziosissimo pezzo, teso e custodito da una lastra di plexiglas. Uscimmo nello stretto marciapiede, interrompendo
il passo di qualche distratto passante, ci investì subito la tiepida
carezza della luce pomeridiana che scendeva dall'altezza della Basilica. Rientrando
manifestai l'esigenza di sapere sulla maestria del colore, volevo che
mi portasse ad esplorare il giardino affascinante del colore naturale. Disse maestro, anziché maestra, sconcertandomi, per potermi poi dare come spiegazione l'idea che l'arte, nei suoi alti livelli estetici e morali, giunga ad annullare le differenze di genere. Mi spiegò che un suo caro amico poeta nel suo massimo lirismo ha una proiezione di sé al femminile, e che lei di fronte alle sue allieve, quando brama che le si carpisca il sapere e ha la responsabilità di scegliere fra di esse chi meglio sappia la differenza tra fare ed essere, pur essendo donna si senta maestro. Terminata questa parentesi, si distese in
un grembo di ricordi preziosissimi, a quanto stavo apprendendo, per
la sua crescita interiore, base poi fondamentale per il fiorire della
sua sensibilità artistica. Anch'io dimostravo una grata piacevolezza ad avere aperto questa porta di ricordi. Nutrivo infatti la timida speranza di portarla a ripercorrere le strade delle sue radici, il che sarebbe stato fondamentale per capire veramente Chiara Vigo e il suo mondo creativo. Ma poi via via avveniva qualcosa di più. Seguivo le immagini della nonna con una partecipazione tale da sentirmi anch'io dentro l'immagine. Ero io la bambina che giocava con la sabbia e a cui la nonna, per invitarla ad avere conoscenza e amore per il mare, diceva : "Se vuoi sabbia più fine, entra in acqua, ne troverai di finissima" Mi sentivo anch'io calamitata verso quella fata che mi accostava ai misteri della natura o che mi insinuava i suoi potenti principi morali. Come quando per far capire a Chiara, ormai ragazza, che non doveva ridurre la propria arte a strumento di sostentamento materiale o di lucro, le diceva : Se hai fame io ti insegno a riconoscere tutte le erbe e le piante che ti possono rendere sazia e farti stare bene, non c'è bisogno che usi la tua arte per questo. - Pensa, quando da piccola abitavo con la mia famiglia a Sardara, disse, soffrivo tanto la lontananza da mia nonna e dal mare che mi dovettero riportare da lei. A questo punto avevo ben capito che quella donna, Leonilde Mereu, maestro di bisso e grande artista di arazzi, che viaggiava per le città d'Europa lasciando in dono i lavori del suo genio, era l'emblema di S. Antioco. La sua gonna frusciante di seta lambiva Chiara nella sua crescita e nella formazione come i tremolii della laguna lambivano la distesa abitativa e i suoi dolci colori della sera fra cielo e mare erano la carezzevole sicurezza della sua perpetua maestria e della sua pervasiva spiritualità. - Come ti avvicinò al bisso? - Chiesi Era bambina di quattro o cinque anni, procedeva
sempre al suo fianco e la sua manina non mollava mai la presa della
gonna lunga della nonna, così anche verso la riva. Poi la bella donna
alta entrava in mare con la gonna -non esistevano i costumi o almeno
non si usavano in quei lidi- e, dopo essersi allontanata un poco per
individuare il banco delle nacchere, diceva alla bambina : Prima di congedarmi da quel primo incontro
una domanda ancora non le avevo posto, domanda assai importante che
avrebbe colpito tutto il suo essere : Ritornavo a casa, l'auto era già uscita dal paese e, superato il ponte romano, incominciava la larga virata che accompagnava il lato sud della laguna. Cercavo di scorgere lontano a nord i luoghi marini di quei racconti che avevano ancora un eco in me e sicuramente per tanto tempo avrebbero avuto, ma gli imbruniti colori delle nuvole carezzavano gli ultimi bagliori dell'acqua, la notte sopraggiungeva togliendo ogni misura. "I colori dei sogni" Questa era la scritta che sormontava la porta della scuola di Nuxis. Una semplice abitazione, sulla strada d'ingresso al piccolo paese, adibita a laboratorio di tintura e tessitura. Chiara, pur attendendomi, si meravigliò piacevolmente della mia visita. La sua presenza era solare, circolava da una stanza all'altra (ogni stanza aveva due telai), nei corridoi -dove si facevano asciugare appese le matasse di lana che avevano ottenuto il colore- e nelle stanze aperte verso il cortile, dove si producevano le tinture, irraggiando la sua intelligenza e la sua carica umana. Le donne e le giovani ragazze erano serene
ma molto intente e non si lasciavano distrarre dalla mia presenza pur
assecondando la mia invadenza e le mie domande. Chiara mi fece ammirare
la grande pentola scura sul fuoco dove venivano intrise matasse col
nero ottenuto da cortecce del melograno poi scorgendo tutt'intorno la
stanza notai recipienti che contenevano radici essicate di robbia -
per il rosso, mi disse, cumuli di rametti di alaterno -le cui foglie
davano un verde- e poi bacche di lentischio e ovunque matasse appese
con svariatissimi toni di colore bellissimi e inconsueti. Mi portò poi a notare i lavori delle allieve,
quelli terminati, esposti a parete. Mi soffermavo come mia consuetudine
davanti ad un paesaggio scrutandone la variabilità delle forme e l'armonia
compositiva della luce. I ricami di lana colorata, lavorati unicamente
dalle dita, emergevano dalle campiture equilibrandone la leggerezza.
Chiara mi faceva poi notare come in certi tratti della lavorazione
la tensione della trama risultava diseguale dando al tessuto un diverso
rilievo accidentato. Ero estasiata, ovunque mi voltassi, dalle
tinte di quelle lane.
Sorrisero un po' tutte e lo sguardo di Chiara sorrideva sornione. Era infatti pronta a dirmi, ed io ero prontissima a sentire, che le tinture naturali nascevano infatti dall'antica esperienza delle benefiche influenze che i principi attivi dei vegetali rilasciano attraverso infusioni, decotti o macerazioni, e che i tessuti così trattati, col calore del corpo cedono principi volatili molto efficaci. - Sudare, mi disse, dentro un tessuto tinto col melograno o con il giallo dell'elicriso è cosa ben diversa che sudare con tessuti tinti con colorazioni chimiche. Veniva qui dalle prime ore del pomeriggio fino alla sera per due volte alla settimana. Sicuramente era stanca. Ma stanca soprattutto delle sue battaglie e delle speranze -come questa della scuola di Nuxis che nacque con modeste finanze- sempre incerte come naufraghe che scrutano orizzonti mai vicini. Le sue due giovanissime figlie che studiavano a casa, il marito disoccupato, come tanti altri, erano la sua famiglia, ma Chiara si proiettava verso una famiglia ben più vasta. Lei doveva stare in cattedra avendo sicuramente molto più titolo di certi, non pochi, docenti che non hanno niente di vero da insegnare e non hanno essi stessi gli strumenti per uscire dal vuoto di valori che rende asfittica ogni ipotesi di apprendimento. Lei ha fatto della sua vita la conoscenza e l'interpretazione di questa terra e di questo mare. Molti di noi, insieme a molti nostri giovani, non osano neanche pensare che oltre lo sterile e crudele allevamento in cui siamo tenuti (tra consumismo e inebezione mediatica) convenga fuggire per ritrovare percorsi più degni, più liberi ed esaltanti per essere concretamente protagonisti nelle nostre comunità.
|