Un tessuto che
viene dal mare.
Non è una favola, né un miracolo, ma è una semplice verità. Una verità
semplice da apprendere per chi si pone di fronte alla natura con la consapevolezza
di poter scoprire infinite meraviglie.
L'uomo
nell'antichità,
ai primordi della sua storia, aveva una tale consapevolezza di ciò a tal
punto che poneva la natura al centro della sua religiosità, nutrice
importantissima di sensibilità e intelligenza. Tra gli antichissimi
popoli del Mediterraneo, la cui vita era legata al mare, e che grazie ad esso
riuscirono a fondare delle importantissime civiltà, sviluppando poi
forti influenze verso altre popolazioni anche lontane, si produceva il
bisso. Sicuramente gli abitanti della Sardegna antica, gli industriosi Cretesi, i Fenici, provetti commercianti, i più
lontani ma raffinatissimi tessitori e tintori Caldei, e gli Egizi
furono i maggiori protagonisti della millenaria storia del bisso.
Datare e localizzare l'origine
di questa produzione è quasi impossibile. Essa si accompagna ai primi
passi delle primordiali civiltà che, tra le sponde del Mediterraneo
e il Medio Oriente hanno visto le proprie famiglie intessere rapporti
e mescolanze di cui risulta assai arduo sfilare le trame.
Per certo sappiamo che già nell'Antico Testamento si parla del bisso
e della porpora come tecniche evolute, sofisticate e ricercate :
in un passo del 2° libro delle Cronache Salomone chiede, per la costruzione
del tempio, che il re di Tiro gli invii un uomo esperto nei filati
di bisso e nella porpora cremisi e violetto, e in un altro passo dello
stesso libro si dice che nel tempio tutti i leviti cantori erano vestiti
di bisso.
Complessivamente in tutto il testo biblico ci sono ben 46 brani in
cui si parla del bisso. |
Queste popolazioni avevano sfruttato la scoperta
che la Pinna Nobilis,
un grande mollusco bivalve produceva dei filamenti che, da ciuffi aggrovigliati,
dopo paziente ed accurato trattamento di cardatura, lavaggio e filatura,
potevano diventare un prezioso tessuto serico, finissimo (il cui filamento
si assottigliava a 2/100 di millimetro senza perdere la sua resistenza
allo strappo) dalla aurea rilucenza e dalle proprietà ignifughe. Da abbondanti
raccolte del mollusco ricavavano sufficiente filo per realizzare tessuti
o ricami ad impreziosire vesti di personaggi di alto rango in campo religioso
come in campo politico e persino nello spettacolo come danzatrici e celebri
etère, insomma chi doveva apparire e rifulgere di luce doveva indossare
vesti in bisso. E vi era una vera e propria industria del bisso come quella
della porpora supportata da manodopera abbondante e a buon mercato - basta
pensare alle sempre nutrite schiere di schiavi.
La
intensiva pesca dei grandi bivalvi
avveniva
con un attrezzo menzionato da Plinio col nome di pernilegum. Constava
di due branche di ferro curve ad arco che servivano a cingere in una morsa
la conchiglia ed erano innestate alla loro estremità ad una pertica di
altezza variabile a seconda della profondità del fondale. Il pescatore
non doveva far altro che far entrare la conchiglia fra le branche del
pernilego ed imprimere allo strumento una rotazione di 90° per estrarre
la pinna dal fondale. Questo attrezzo era di invenzione Tarantina. Laddove
invece era sconosciuto veniva usato un altro tipo di pesca con una cordicella
a nodo scorsoio manovrata da due individui, uno che si tuffava in acqua
e adattava il nodo alla Pinna e l'altro che dalla barca tirava la funicella
e la preda.
Il ciuffo di filamenti in quei tempi si prendeva tutto intero, aprendo
la conchiglia e tagliandolo direttamente dal suo piede, in questo modo
si utilizzavano i filamenti in tutta la loro lunghezza che arrivava a
cm. 25 ma si uccideva la Pinna.
I
mazzetti fibrosi,
del
peso di gr.1,5 l'uno, subivano una serie di lavaggi in acqua dolce, per
12 giorni, in modo da essere dissalati e resi elastici poi si facevano
asciugare all'ombra e in luogo sufficientemente ventilato.
Un secondo trattamento consisteva in un bagno in urea di vacca che schiariva
le fibre e ne esaltava la lucentezza (a quel tempo nelle terre del Mediterraneo
non si conoscevano gli agrumi che furono introdotti dall'Asia successivamente
e così, in secoli più recenti, si poté scoprire che lo stesso risultato
di lucentezza si otteneva con il succo di limone puro in un bagno di 36
ore).
Successivamente si passava ad un lavaggio con saponatura in erba saponaria
e la solita asciugatura all'ombra.
La cardatura dei bioccoli, che ancora in questa fase trattenevano nei
grovigli delle impurità ed incrostazioni, avveniva in due fasi successive
con due diversi strumenti. In una prima si usava una tavola chiodata e
nella seconda un cardo a spillo.
Una volta ottenuta la bambagia cardata -la ciocca a questo punto aveva
perso i 5/6 del suo peso- si procedeva alla filatura. Per
poter filare fibre così sottili e delicate occorrevano dei polpastrelli
molto sensibili e delicati, perciò per questa fase della lavorazione venivano
adoperate ragazze abbastanza giovani da avere ancora le mani adatte, cioè
con il pollice e l'indice di estrema sensibilità tattile.
Si usavano dei fusi a piombo di circa 30 cm., come quello Tarantino e
Cipriota. Si poteva ottenere una filatura a filo liscio, adatto per i
ricami, o a filo ritorto, cioè doppio, più resistente e quindi adatto
per l'orditura che poteva essere a muro -come si usava in Grecia e in
Persia- oppure a terra -come in Mesopotamia-.
La colorazione
dei filati
avveniva con il porpora (dibromurato di indaco) ricavato
dalle ghiandole porporigene dei murici, molluschi con conchiglia a spirale
con pareti dure, scanalate e acuminate. I murici avevano spiccate qualità
tintorie nei mesi da Marzo a Giugno (periodo di fecondazione in cui si
radunavano in grandi moltitudini). Quindi una fibra marina si colorava
con un altro elemento marino.
Nella stagione propizia, la primavera, venivano catturati con piccole
nasse. Nelle città costiere del nord Africa, dell'Asia Minore e dell'Europa,
dove erano situate le industrie della porpora, non era difficile trovare
frantumi di conchiglie in cumuli enormi.
I
lavoranti addetti rompevano con un colpo secco le conchiglie in modo da
non danneggiare gli animali, asportavano le ghiandole, che erano poste
vicino all'intestino e che emettevano un odore nauseante.
Procedevano poi alla loro macerazione in un recipiente di argilla con
l'aggiunta di sale marino per tre giorni. Per ogni kg di sostanza macerata
si aggiungevano poi g.500 di acqua e si cuoceva a fuoco lento in una caldaia
di piombo dentro una fossa foderata di mattoni in cui, attraverso un tubo
orizzontale si faceva arrivare calore da una fornace. Si asportavano quindi
con dei mestoli forati i frammenti di ghiandole e, ottenuta la gradazione
di colore desiderata si teneva la soluzione calda per 10 giorni. Dopo
si potevano immergere i filati e la gamma dei colori poteva andare dal
turchino al rosa fino al rosso forte e viola.
Il
declino di una produzione
così fiorente ed importante incominciò dal secolo dell'imperatore
Giustiniano ( 500 d.c.) da quando cioè furono portate a Costantinopoli,
dalle frontiere della Cina, da due monaci Persiani, delle pianticelle
di gelso e molte uova di baco da seta. In breve tempo la seta si sviluppò
nell'isola di Scio e si diffuse poco dopo in Sicilia e da lì in tutta
la penisola.
La raccolta dei bioccoli di pinna Nobilis non poteva certo competere con
la continua e illimitata produzione dei bachi in allevamento e così
il bisso, già condizionato da una laboriosa tecnica, vide persi
definitivamente molti mercati di sbocco. Andò così sempre più a chiudersi
come specializzazione che poche famiglie si tramandavano per una manifattura
artistica di pregio, fatta di pezzi unici riservati per lo più ad onorare
personaggi ed eventi importanti.
Nell'Italia meridionale, Taranto che era stata
il centro di una fiorente lavorazione -in epoca classica era famosa per
le tarantinidie, vesti femminili leggere e trasparenti giudicate molto
provocanti e lascive- nei secoli più vicini a noi vide abbandonata la
tessitura, il prezioso filato fu usato solo per ricamare.
Ciò
che rimane oggi
ad attestare la raffinata manifattura del
bisso di Taranto è un centinaio di pezzi: un po' custoditi in prestigiosi
musei del mondo e, per la maggior parte, in
Italia, ma in questo caso si trovano in luoghi non idonei dove, per lo
più, non sono resi fruibili alla visione del pubblico.
LEONI
e PALMA
Leoni a guardia della pace
per il disastro delle torri gemelle
Ordito e trame in lino grezzo, ritorto e filato
a mano, ricamo in bisso marino naturale, ritorto e sbiondato. Porpora
rosso e blu, tintura con murex.
Chiara Vigo - 2001 |
- Al Museum für Naturkunde di Berlino
si può ammirare un paio di guanti prodotti dai ciuffi di Pinna Nobilis
quale dono fatto dal vescovo di Taranto nel 1822 al re Federico Guglielmo
II che visitò Napoli in quell'anno.
-
Viene da pensare a quanto
scriveva Jules Verne nel suo "20.000 leghe sotto i mari"
del 1870 :
"Indossai alla svelta i miei abiti di bisso … Gli feci sapere
che erano intessuti di quei filamenti lucidi e serici che fissano
alle rocce le nacchere, specie di conchiglie frequenti intorno
al Mediterraneo. Una volta, se ne facevano belle stoffe, calze,
guanti, essendo questi filamenti nel tempo stesso morbidi e calorosi." |
Al Field Museum of Natural History di Chicago
è esposto un manicotto acquistato da Taranto nel 1893 per l'esposizione
mondiale di Chicago. Si tratta di una lavorazione cosiddetta "a pelliccia"
con i ciuffi di fibra cuciti interi, strato su strato, su di un tessuto
di base, il cui risultato è una pelliccia che brilla dei dorati fili
di bisso.
- Altri reperti molto più antichi si possono
trovare in antiche chiese Europee o in esposizioni museali incamerati
a seguito di fortuiti ritrovamenti in scavi archeologici. Sono di provenienza
non precisamente determinata ma sicuramente da centri Mediterranei (tra
i più probabili in Puglia, Sardegna e Sicilia). Alcuni di questi esempi
sono :
- Il cappuccio di puro bisso lavorato
a maglia, datato XIV secolo, ritrovato a Saint-Denis vicino a Parigi
e custodito al Musée d'art et d'Histoire di Saint-Denis.
- Il sacrale -detto di Saint-Yves- (tessuto
quadrato che il sacerdote usa sopra la tonaca) del XII secolo custodito
nella basilica di Saint-Yves a Louannec in Bretagna. Questo sacrale,
cui i Francesi hanno attribuito una provenienza Siciliana da atelier
ispanico-moresco, ha il motivo dei grifoni affrontanti con al centro
la pianta della vita (motivi presenti nella antica tradizione Sardo-Antiochense)
che invece potrebbe far supporre ad una provenienza da S.Antioco,
anche considerando che i monaci
Vittorini di Marsiglia ottennero la concessione del Santuario di
S.Antioco dal Giudice Costantino di Cagliari per operare dei restauri
proprio nello stesso secolo XII. I monaci di San Vittore di Marsiglia
erano a quei tempi richiestissimi restauratori di chiese antiche
e potrebbero essere stati loro i tramiti con la basilica di Saint-Yves.
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