Is Loccis-Santus

E' come parlare di un tesoro straordinario nascosto in un' isola lontana.
In giro nessuno ne ha mai saputo niente e ti guardano come si guarda chi è stato preso da un' esaltazione tipica di una passione amorosa.
Vado parlando di Is Loccis-Santus, una località quasi attaccata alla mia città, la cui esistenza ho sempre ignorato e che all'improvviso mi si para davanti aprendo tutti i suoi tesori.
Ha un nome che si ricorda e quando lo vedo ripetuto alcune volte in scritti di archeologia in citazioni : "necropoli", "reperti ceramici", "cultura di Ozieri", "campaniforme", "Bunnannaro", capisco che è di rilevante importanza anche se nessuno me ne ha mai parlato. Quando mi viene la voglia di saperne di più e indago sulla sua ubicazione, scopro che è in territorio di San Giovanni Suergiu, a pochissimi chilometri dalla mia città.
Capisco che deve essere di quei tesori che sono tenuti nascosti. Ma non sto parlando di tesori concreti e luccicanti (come quelli che immaginiamo custoditi dai pirati in isole deserte), giacché una volta arrivata la "soprintendenza" poi non resta più niente da ammirare se non la nuda roccia, bensì di tesori culturali. Un tesoro culturale ben celato.*
*Celato da chi e perché sono domande che già da qualche tempo ormai non mi pongo più, constatando amaramente che una casta ristretta, ottusa e clientelare gestisce tutto il nostro enorme patrimonio archeologico. Se pensiamo che la sola fruizione diffusa della conoscenza di questo enorme patrimonio rappresenterebbe già essa stessa da sola un notevole potenziale di ricchezza e sviluppo e se pensiamo invece a ciò che siamo, una regione che per lunghi decenni è rimasta povera di progettualità, di operatività, di idee che comunicano, pronta ad abbracciare piani che "altri" "pensano" per noi in nome del nostro progresso e che poi si rivelano piani di ruberia e di rovina. Allora, pensato questo, capiamo che tenerci nascosto il nostro patrimonio culturale rientra in un sistema che continua ad allontanarci dalla comprensione e quindi dalle decisioni sul nostro territorio, perché siano sempre le caste, i preposti a decidere per noi. Rientra in questa strategia ad esempio che i sulcitani non sappiano di avere nel loro territorio un vasto e ricchissimo areale di zone umide con avifauna importantissima non solo per la Sardegna ma per tutto il pianeta e che quindi nell'ignoranza siano pronti a dare il benvenuto a qualsiasi piano di cementificazione dell'area con la sacralizzata insegna dello "sviluppo turistico". Questo è un sistema, una politica che, se non fermata, porterà alla rovina completa la nostra isola, che ci farà più ignoranti, più poveri e più servi.

Devo assolutamente vederci chiaro, saperne di più e soprattutto arrivare al sito seguendo le orme di questo bel nome : Loccis-Santus.
Si tratta per la precisione di lipariti, cioè lave vulcaniche,di deposito oligomiocenico (tra 35-15 milioni di anni fa) contemporaneo a Monte Sirai e Monte Crobu.
Mi oriento verso una strana cresta trachitica che scorgo in lontananza a destra dal primo semaforo, uscendo sulla strada che porta a S.Antioco. Ho avuto indicazioni che troverò la necropoli ai piedi di quella cresta, nel lato che si rivolge al mare e alla laguna. E quindi aggiro la collina verso destra e trovo poi un cartello basso, di legno e poco evidente, con scritto Is Loccis-Santus, ancora un pochino di strada, una cabina elettrica e poi... E poi entro in un villaggio, in un medau. medau Già, perché il cartello mica parla di necropoli, non sta ad indicare un sito di rilevanza archeologica, ma bensì un vero (e splendido da come si presenta) medau.

Tutto quindi rientra nella logica del nascondere. Io però sono testarda, so che la necropoli è lì e ritengo una enorme ingiustizia che mi si impedisca di vederla. Allora in modo indiscreto mi parcheggio all'interno del piccolo medau. Mi guardo intorno. Mai visto niente di tutto questo: niente case diroccate, niente cortili pieni di cianfrusaglie e di immondizie, niente abbandono, ma graziosissime casette e preziosi cortili, con un panorama splendido sulla laguna con di fronte l'isola di S.Antioco. Sembra che il villaggio abbia avuto un bagno disincrostante che lo abbia riportato al suo originale splendore: le pietre che riappaiono al posto della intonacatura cementizia, le grandi pietre utilizzate per i giardini, le pietre incise nei fregi degli architravi e il legno in travi di sostegno, negli infissi,nei piccoli cancelli, intelaiato in cannicciate, nei pergoli.
Sento dei rumori, non è quindi solo un incantamento, c'è della vita. Vado incontro ad un uomo giovane che scalpella delle pietre e che gentilmente smette di lavorare e mi racconta. Il medau è davvero antico, risale molto verosimilmente al 1700 ed è frutto della fusione di due famiglie, i Locci e i Santus, da cui il suo nome. medauMi dice che la sua famiglia ha rilevato una buona parte della proprietà per farne un esempio di nuova imprenditorialità per un turismo diverso, culturale.
Mi fa notare un po' qua e là il lavoro di restauro operato su rifacimenti un po' scriteriati che le abitazioni avevano subito negli ultimi vent'anni, come pure i muretti a secco bassi che andavano sostituendo i più alti muri di cemento che ostacolavano visivamente la magnifica scenografia paesaggistica. Ma tutte quelle pietre scure e lavorate sembravano pietre nuragiche. Mi dà conferma. Il medau sorgeva dove anticamente era insediato un villaggio nuragico.

nuraghe

Più su poco distante da noi a destra avrei trovato la necropoli, le domus de Janas, e a sinistra un nuraghe. Prima di indicarmi la strada per la necropoli, che avrei subito incontrato, passando a destra oltre le case, parlammo un po' della storia di quei luoghi che nascondevano testimonianze di una cospicua densità abitativa.

Per tutta la piana sottostante non era difficile trovare frammenti ceramici o punte di ossidiana dopo che tra le zolle arse dell'estate avesse spazzato con forza il maestrale. Le punte di ossidiana significavano frequentazioni di caccia e il toponimo "suergiu" (con cui si chiamava il monte San Giovanni e la sua piana), significante sughero, ci fa immaginare un bosco di querce che arriva così vicino al mare.

Un sentiero tra siepi, una strada di oscuri ciottoli che emerge dal nulla. Penso che se scavassi la terra potrei vederne il principio. Una strada molto antica fatta per i carri, non per l'uomo o gli animali. Ma
"Il toro", "La vacca", "Il vitello" si chiamano così le tre isole, dalla più grande e più lontana alla più piccola e più vicina, parate davanti al golfo di Palmas ( sembrano bovini che da una soglia virtuale si vedano in lontananza, chini a brucare in una radura azzurra). Esse hanno la stessa genesi e conformazione geologica del rilievo di Is Loccis-Santus.

sparisce appena si sale. Anche le siepi di olivastro spariscono e, mentre a sinistra costeggio il fianco della collina, a destra mi si apre la visione verso il golfo e le sue isole bovine.
Ma ecco incomincia un alto recinto. La collina di depositi vulcanici è tutta chiusa da un recinto. Le Domus de Janas devono essere qui dentro. Posso solo vedere da lontano un magnifico ingresso a dromos. Mi fermo, incredula, emozionata, amareggiata.

Mi balenano tante cose nella mente. Indubbiamente c'è più di una stanza oltre quell'ingresso monumentale. Che immane lavoro forare così il colle. Le case dei morti guardano verso il mare e il sole che tramonta. Posso solo immaginare le altre, perché dall'esterno dell'area non si vedono, oltre il muro e la recinzione c'è vegetazione. Che rabbia, percorro tutto il perimetro e un enorme cancello chiude del tutto ogni aspettativa. Ma nessun cartello, nessuna indicazione e soprattutto nessuna firma di chi si arroghi il diritto di precludere alla collettività la fruizione di un bene culturale che deve essere di tutti.
Domus de Janas Domus de Janas


Quando l'erba non è più così alta (alla fine dell'inverno), entro oltre il recinto, non dico come, e posso ammirare ad una ad una le domus, una dozzina. Le prime che incontro sono semplici nicchie scavate in forma ovoidale dove i defunti venivano adagiati in posizione fetale.
Ma spostandomi un po' a sinistra e un po' più su posso ammirare più complesse architetture. Trovo delle soglie squadrate, varcate le quali mi trovo di fronte ad un sistema emisferico pluricellulare dove le tombe, a nicchie (in alcune trovo pareti rettilinee e quadrangolari, in altre curvilinee e tondeggianti), sono ricavate in padiglioni, stanze, con pilastri e sopraelevazioni a scomparti.

Domus de Janas Domus de Janas

L'emozione è tanta e, quando mi accorgo di essermi spostata sempre più in alto a sinistra e di aver terminato, ripercorro a ritroso per rivisitarle e fare confronti. Alcune, quelle su cui non mi sono soffermata, sono colme d'acqua piovana. Prendo quindi, ritornando sui miei passi, in alto a sinistra un sentiero. Deve essere quello che porta al nuraghe, se ne vedono i resti in una cima. Ci arrivo facilmente ma la scalata è un po' ardua per via di intricati cespugli che ne accerchiano il perimetro. Ma su in cima è uno spettacolo. E' in comunicazione visiva con tutto.

Se tendo le mie braccia ad angolo retto tenendo il braccio sinistro a nord e il destro ad est, le mie mani sono il linea retta a nord con Monte Sirai e con Seruci e ad est con le domus de Janas di Monte Crobu. Tutto, domina tutto, come anche altri nuraghi su cui sono salita qui nel Sulcis ho avuto la sensazione di un battesimo, di un'iniziazione al territorio.
Guardando intorno immagino le genti avvicendate in quei luoghi, le immigrazioni, le paure e le difese, ma anche le fusioni di culture, il loro linguaggio, il lavoro, l'arte, il culto.

E' con l'eco di questo immaginare e della sua fascinazione che il giorno dopo incomincio i miei studi.

Mi reco al museo archeologico della mia città che custodisce alcuni reperti di Is Loccis-Santus.
Non è la prima volta che visito il museo ma certamente è la prima volta che fremo d'interesse. Nella mia memoria non c'è un ricordo soddisfacente tra le vetrine di quell'unica stanza, e non appena la ragazza operatrice mi dà il biglietto e si accinge, facendomi varcare la soglia, a rivestire il suo ruolo, capisco il perché di quella non soddisfacente memoria. Penso - accidenti ora mi si appiccicherà per recitarmi a memoria la pappardella su Monte Sirai, sul presunto mastio ecc., come sarebbe bello invece che io fossi da sola con delle semplici didascalie sotto ogni pezzo (l'oggetto, la sua funzione, la provenienza, la datazione) - Ed invece sotto i reperti non c'è niente, nelle vetrine ci sono oggetti di diversa provenienza e datazione sistemati vicini solo per il fatto che sono frutto di una collezione privata donata al museo.

Per scongiurare ciò che non voglio, premetto alla ragazza che voglio vedere solo i pezzi di Loccis-Santus, e lei mi sorprende, non si comporta, come io penso, con la ossidata presunzione di avere sempre di fronte degli sprovveduti incompetenti, ma è gentile e si sofferma con onestà e interesse alle mie domande. Solamente un gradino e un passo ci porta di fronte alla vetrina che ci riguarda. Mi mostra alcuni reperti scelti dalla collezione Doneddu, relativi ai corredi funerari delle domus de Janas n.5 e 9 e riferibili alla cultura campaniforme (2700-2200 a.C.) e a quella di Bonnannaro (1900-1600 a.C.). Il mio sguardo si sofferma su quelle piccole forme vascolari per lo più integre. Nel ripiano superiore ci sono due tazze di impasto chiaro, puntinate a chevrons, una con anse asciformi, l'altra con presine bugnate. Un tripode campaniforme a cuenco con bande puntinate alternate a chevrons e più in basso, verso il fondo una fila di linee verticali corte e parallele. Nel ripiano sottostante un vasetto spicca sugli altri, è anch'esso di forma a campana ma è di pasta scura e riccamente decorato a zigzag e chevrons ottenuti con linee puntinate, su questo motivo inciso è stato inserito del caolino (ocra bianca) Vasetto che ne esalta l'effetto estetico. Sullo stesso ripiano ciotole, tazze e tripodi (che venivano di solito usati sopra la brace per la cottura dei cibi ) della cultura di Bonnannaro: un tripode con sei presine, una ciotola con un piede, un'altra con il bordo leggermente estroflesso, ciotole carenate con anse, una tazza d'impasto chiaro e compatto con due presine verticali nell'orlo, una strana ciotola fregiata da cinque piccole merlature sull'orlo e delle tazze miniaturizzate (immagino il corredo funerario di un bambino). L'impasto del vasellame del periodo Bonnannaro è di lavorazione più grossolana rispetto al periodo precedente campaniforme, anche se non viene del tutto persa una esigenza decorativa.

Ma oltre alla ceramica vascolare in un angolo c'è una pietra chiara a forma di piccolo betilo. Non posso non soffermarmi a lungo su di lui. Di trachite rosata a forma ogivale, nella parte superiore il suo cono è arrotondato e delle scanalature lievi che scendono senza incrociarsi fanno pensare al contorno di un volto, mentre dalla vita in giù partono delle incisioni a formare dei rettangoli concentrici con i lati inferiori aperti. Ho detto piccolo betilo impropriamente, forse è meglio parlare di piccolo menhir, comunque di un idolo in pietra. Non posso sapere con precisione se l'idolo fosse espressione di cultura semitica (betilo è una derivazione dal latino baetulus che significa pietra sacra, assimilato dall'ebraico Beth-el che significa casa di Dio) o se di cultura celtiberica, quella dei dolmen e dei menhir, certo è che in tutte le culture eneolitiche d'Europa e del medio Oriente la pietra ha simboleggiato, per la sua stabilità e incorruttibilità, la divinità ovvero il sacro mana, la magica energia spirituale del mondo.Dea Madre
Poi in una vetrinetta a tavolo altri oggetti che fanno nuovamente scattare in me l'immaginazione. La ragazza mi fa notare dei bottoni in osso, un ago, un punteruolo, vaghi di collane in conchiglia, in osso e in pietra ed infine due piccoli "brassard". Mi dice che sono bracciali litici (cioè lamine in pietra), usati dagli arcieri per proteggersi la parte interna dell'avambraccio, poco più su del polso,dal rilascio della corda dopo la tensione dell'arco.
In uno mi fa notare le estremità provviste di sottili scanalature che sarebbero servite per i lacci e in un altro due fori in due angoli opposti avrebbero avuto la stessa funzione. Ebbene, mi sforzo di avvicinare quei piccoli oggetti a quella detta funzione. Indubbiamente gli arcieri dovevano essere di casa in un luogo così deputato per la caccia, ma più guardo quegli oggettini in pietra e più non riesco ad immaginarli come protezioni, per il semplice fatto che qualsiasi lamina in scisto, dopo il colpo subito dalla corda, si sfalda. Comunque la visita è conclusa e rimango frastornata per un po' dal grande fascino dei reperti ma anche dai tanti dubbi e domande che mettono in fermento la mia curiosità. Curiosità che mi predispongo a soddisfare leggendo e spulciando tutto ciò che trovo che dica o che riferisca di Loccis-Santus.
Vengo così a sapere che devo quasi tutto a due uomini. Il primo fu Pietro Doneddu, cultore sensibile ed appassionato della nostra storia antica, a cui i tombaroli vendevano gli oggetti reperiti nelle loro prime "visite" alla necropoli e che ora fanno parte della sua donazione al museo pubblico. Fu lui a capire per primo, da quei reperti ancora superficiali (che, se lui non avesse acquistato dai clandestini e raccolto, avrebbero preso il largo, per così dire, chissà dove), che quelle domus de janas rappresentavano un sito importante su cui si poteva leggere l'avvicendarsi delle varie popolazioni e culture, tra sovrapposizioni ed assimilazioni, che abitarono civilmente questa parte di Sulcis. Fu il primo a dare ripetute segnalazioni all'Università di Cagliari perché si intervenisse a tutelare quel patrimonio archeologico. Il secondo fu Mario Puddu, che fu allora (negli ultimi anni '80) Assessore alla Pubblica Istruzione al Comune di San Giovanni Suergiu. Egli, sensibile ai problemi del recupero documentale e materiale dei beni archeologici del territorio di sua competenza, promosse all'interno dell'amministrazione l'utilizzo dei fondi che l'Assessorato Regionale al Lavoro concedeva per il piano triennale per l'occupazione. Fu così che con quei fondi si poté iniziare la prima campagna di scavo, era il Gennaio 1990.Fu incaricato dalla Soprintendenza Archeologica di Cagliari e Oristano alla conduzione dello scavo il Prof. Enrico Atzeni, coadiuvato dal suo assistente Remo Forresu. Una seconda campagna di scavo iniziò il marzo del 1991 e consentì di completare il recupero di complessive otto tombe.
Un libro importante: "Carbonia : Archeologia e Territorio", un librone grosso che riporta le relazioni di scavo di varie ed importantissime, ma ahimè poco divulgate, scoperte archeologiche del territorio di Carbonia e del Sulcis.
Qui di seguito è il risultato della mia lettura, in particolare della relazione su Is Locci- Santus.
La datazione dell'impianto di un sito archeologico - nella nostra zona così come in tutta la Sardegna - si è sempre dedotta attraverso la datazione (presunta da comparazioni con altri reperti di altri ritrovamenti) dei suoi materiali (reperti litici, frammenti di vasellame ecc...), con un metodo quindi comparativo.
TombaLa datazione della necropoli è stata desunta dagli studi stratigrafici effettuati in quelle due campagne di scavo. Nella relazione si dice del fortunato scavo del padiglione d'ingresso della tomba IV che ha dato un deposito inviolato profondo un metro il cui esame ha rilevato 4 strati, ossia 4 livelli culturali.
In base all'ultimo strato, il quarto, il più profondo dello scavo, e quindi il più antico, e all'esame dei reperti di questo, si è datato l'impianto della necropoli di Loccis-Santus al periodo della "cultura di S. Michele di Ozieri".

Circa 10 cm. di spessore, questo strato ha riportato alla luce, infatti, ceramiche tipiche della cultura Ozieri ( vasi a calathos, anse a tunnel, e tipici motivi decorativi).
Il terzo strato, di 30 cm., ha riportato alla luce olle biansate, vasetti biconici o globulari a collo alto con decorazioni di striature verticali e parallele, ciotole emisferiche con orlo espanso, manufatti ascrivibili al periodo della cultura di Abealzu-Filigosa.

Il secondo strato, dello spessore di 40 cm. ha dato frammenti di grandi doli propri della cultura di Monte Claro, d'impasto scuro, con i grandi orli a tesa e decorati con scanalature.
Il primo strato, di circa 20 cm., ha rivelato un vasetto di stile campaniforme, alto cm.7,5,con due bitorzoli conici, forati verticalmente per la sospensione, sulla linea della sua massima circonferenza, decorato sul corpo e sul collo con serie di incisioni lineari bordate dai soliti motivi alternati di zigzag, di triangoli pendenti e di frange a chevrons.

Poi un tripode di cultura Bunnannaro a tazza carenata con una piccola ansa a gomito sull'orlo. Il campaniforme è attestato, si dice, anche da tanti frammenti di vasellame tipico trovati all'esterno della tomba XI e dai rimestati riempimenti della tomba V, dove, tra l'altro, si sono trovati due brassard di scisto bruno, spezzati, a due e a quattro fori.

Questo è il sunto della relazione di scavo. Ma il libro è molto interessante perché, oltre ad alcune fotografie sia del sito, sia di una sezione stratigrafica e sia di alcuni reperti, ci mostra molti accurati disegni dei particolari frammenti di vasellame e la ricostruzione dei pezzi completi con l'accurata evidenza dei motivi decorativi.ceramiche Solo guardando queste pagine mi rendo conto di una cosa che dalla visita al museo non ho valutato: questi pezzi sono uno diverso dall'altro, ed è straordinario. Se gli strumenti decorativi, infatti, permangono gli stessi, non si ripetono invece le combinazioni dei motivi, rendendo ogni pezzo unico, nel decoro, nella forma, nella dimensione e nei suoi elementi funzionali. Mi affascinano sempre di più le civiltà eneolitiche in Sardegna, hanno seminato per tutta l'isola un avanzato gusto estetico ed un rapporto pregnante con l'oggetto, che non è solo prodotto di utilità ma è anche veicolo di significati. Tutto ciò è bellissimo e denota un rapporto con la natura non solo di pacifico utilizzo ma al contempo di rispetto e devozione.
Vi è poi, nelle pagine successive alla relazione di scavo, una parte, anch'essa ricca di disegni e foto, che riguarda la descrizione dettagliata dei reperti della collezione Doneddu. Ed è tra queste pagine che trovo un mistero davvero impegnativo. Quasi al termine della descrizione dettagliata della collezione Doneddu presente al museo, prima della descrizione dell'idoletto in pietra, si parla di un brassard litico di scisto bruno, un rettangolo di cm. 12 x 3, i lati lunghi sono leggermente incavati al centro e quattro forellini stanno agli angoli. La foto è molto scura e l'immagine non si legge, ma un disegno ne riporta i motivi incisi. Innanzi tutto trovo subito differenze con gli altri due cosiddetti brassard del museo, nelle dimensioni ( quelli erano di gran lunga più piccoli) e nella forma (quelli erano dei rettangoli puri, mentre questo ricorda la forma o del lingotto a pelle di bue o dell'ascia bidente). Poi dal disegno questa volta emergono non motivi ornamentali ma dei veri e propri segni con funzione semantica. Da sinistra verso destra: la stilizzazione di un animale con le corna, la cui testa è simile a questo segno ", poi il sole alto, la stilizzazione dell'uomo, un gruppo di tre segni di cui due sono in basso ( ÷÷ ´ ) e uno in alto ( vê) , e per ultimo la stilizzazione di un pesce.
Ebbene, nel libro, prima ancora della sua descrizione, si premette "Non deriva forse da Loccis-Santus ma da una tomba romana di S.Antioco, il brassard ….. e mostra sulla faccia superiore una serie di motivi incisi di simbologia giudeo-cristiana" Tutto ciò mi lascia sconcertata.
Penso : è presumibile che il compianto Prof. Doneddu (la cui famiglia a quel tempo gestiva una piccola azienda florovivaistica proprio in territorio di S.Giovanni Suergiu) tenesse i reperti, che gli comportavano non poca spesa e non pochi pensieri, non come si possono tenere i calzini in un cassetto, ma con delle schedature che riportassero almeno il luogo e la data del ritrovamento. E quindi, se i congiunti alla sua morte cedono la collezione e dichiarano che la sua origine è Is Loccis-Santus, come fa a saltar fuori una tomba romana e un suo unico reperto stare insieme ad altri la cui datazione è ascritta ad un periodo anteriore di ben 1.800 anni ?
Qui c'è sotto un mistero davvero interessante, soprattutto perché del brassard in questione non c'è assolutamente traccia né al museo di Villa Sulcis e né al museo archeologico di Cagliari, e nessuno ne sa niente. Mi chiedo: Chi si è arrogato il diritto di precluderlo al suo luogo deputato? Qualunque fosse la sua datazione (accertata però, non solitamente presunta), è un reperto donato alla città e alla sua fruizione pubblica. Chi può arrogarsi il diritto ad una azione così riprovevole e così lontana dal senso di democrazia? Certo è che la visione delle incisioni del cosiddetto brassard (si perché anche qui si pone un grande dubbio: una protezione di ben 12 cm. in scisto all'avanbraccio non penso fosse un uso funzionale e poi con quella forma) avanza delle ipotesi un po' sconvolgenti per chi governa l'ufficialità degli studi archeologici. E cioè presentare una testimonianza documentaria della presenza della scrittura in Sardegna nella prima età del Bronzo butterebbe giù tutta quella impalcatura tesa a convincerci di una scrittura assai tarda in Sardegna, espressa solo dal predominio e conquista di popolazioni più evolute.
La biblioteca comunale ha acquisito di recente un libro importantissimo intitolato "Sardoa Grammata" che tratta proprio di questo problema e, guarda caso, cita parecchie volte Loccis-Santus. Ho la fortuna di averlo in mano e mi rendo subito conto che il suo autore, il Prof. Gigi Sanna, ha svolto un immane e preziosissimo lavoro di ricerca di fonti scritte e documentarie per ricostruire il percorso dell' uso della scrittura in Sardegna già dal secondo millennio a.C.. Mi rendo via via conto che il suo è un lavoro serissimo e che, al di là delle diverse posizioni interpretative di ognuno, aiuta moltissimo a capire e ricostruire la nostra storia, finora fitta di vuoti e di gratuite bugie. La profondità e la vastità dei suoi studi che nel libro emerge mi fa capire ancora una volta di quanto e quanto viene nascosto, o non fatto circolare, alla pubblica conoscenza. Ed anzi, seguendo sui giornali le vicende della pubblicazione di questo libro, mi rendo anche conto che più uno studioso è produttivo, coraggioso e impegnato, e più viene ostacolato ed emarginato dalla cultura ufficiale. Gigi Sanna dimostra una vasta e profonda conoscenza in campo paleografico, una nutrita cultura nel settore degli studi linguistici e storici e un'accurata analisi dei documenti sardi.
Ci presenta una serie di reperti paleografici, tra cui il cosiddetto brassard di Loccis-Santus, che in Sardegna, già dall'alba dell'età del bronzo (iscrizioni sulla roccia, tavolette di bronzo, scritte su cocci ceramici, su sigilli etc…), esprimono alfabeti semitici prefenici. Pittogrammi, crittogrammi, logogrammi, come evoluzioni dai geroglifici egiziani, si elaboravano e circolavano già dal II millennio a.C. in quella regione che fu la culla della scrittura in Europa, cioè la regione siriano-palestinese, le cui città più importanti (Biblo e Ugarit) diedero molto lavoro agli scribi. Da quella regione si propagarono con i traffici commerciali, in tutte le rotte mediterranee, le prime funzionali semplificazioni di sistemi consonantici. Ebbene l'effetto di questa sua importante ricerca produce il totale sfaldamento della teoria propinataci dell'assenza di scrittura in Sardegna prima dei Fenici. Non solo circolava scrittura nell'isola, e c'erano scribi, ma erano usati, in un sistema composito, misto, i tre principali alfabeti semitici arcaici: il protosinaitico (detto così dalle miniere di turchese del Sinai in mano agli Egiziani in cui sono state trovate delle iscrizioni graffite) l'ugaritico, (in uso nella città di Ugarit) e il gublita (la scrittura usata a Biblo, da Gubla termine con cui gli Accadi chiamavano la città di Biblo).
Non faccio in tempo a terminare il corposo libro del Prof. Sanna che accorro ad una sua conferenza che tiene a Cagliari insieme a dei docenti della Sorbona di Parigi. Nella sala congressi del Banco di Sardegna Gigi Sanna espone la sua traduzione dei sigilli di Tzricotu, la sua interpretazione dei reperti di Glozel e per ultimo la sua decifrazione del reperto di Loccis-Santus. Già, proprio la misteriosa lamina in scisto. Me la vedo proiettata sullo schermo, il professore con la freccia laser indica al numeroso pubblico i particolari elementi di scrittura incisi. Innanzi tutto ci tiene a premettere che non può essere un brassard per il semplice fatto che lo scisto, già dal primo colpo inferto dalla corda, si sfalda. Ciò conferma i miei dubbi e arrivo alle stesse conclusioni del professore che ce lo presenta come un bidente che si teneva al collo come un amuleto ed anche come un pettorale (di pettorali ne abbiamo numerosi esempi nella bronzettistica e nelle meravigliose statue di Monti Prama). Ci spiega che l'iscrizione va letta da destra a sinistra nei suoi sette segni logo-pittografici (per primo un dalet, nella parte superiore un nun, al di sotto le lettere taw e zayn, poi la he, un logogramma solare ed infine un toro o aleph).
La lettura che scaturisce dalle ipotesi interpretative del Prof. Gigi Sanna ci porta ad una iscrizione religiosa in cui si affaccia la nuova divinità nuragica, che dalle prime età del bronzo affianca e poi sostituisce il culto femminile per Y-Ana con quello maschile e taurino o astrale Abi (Yhw.h). Io sono completamente affascinata nell'esame di queste ipotesi.
Indubbiamente il contesto Bonnannaro di Is Loccis-Santus è una testimonianza importante di questo passaggio culturale. Quali genti, quali innovazioni sono state protagoniste di questa importantissima svolta, sono domande che meriterebbero una apertura e cooperazione tra studiosi, una vera e limpida circolazione di notizie e idee che invece non c'è. C'è invece ottusità e chiusura, addirittura occultamento. Ebbene, la lamina in scisto, bidente o bipenne, viene rivelato alla conferenza, questo gioiello culturale importantissimo non solo per la Sardegna ma per tutto il mondo occidentale, si teme sia definitivamente sparito, nessuno sa dire dove sia.
Questa è la conclusione del mistero, una sconcertante verità: il tesoro c'era, forse c'è ancora, ma non si sa dove sia, comunque non è nostro, non è della collettività, dei cittadini. Provo una mortificazione frustrante e penso a come sia facile per molti nostri amministratori farsi campagna elettorale dimostrandosi a parole sensibili al problema dell'occupazione e allo stesso tempo disinteressarsi completamente di come viene gestito il patrimonio e il servizio culturale che, come si sa, oggi può essere fonte rilevante di occupazione, a come sia facile dichiararsi democratici e poi soggiacere a logiche e pre-poteri che di democrazia non fanno neanche sentire l'odore.

Questo mi ha dato Is Loccis-Santus : fascinazione, conoscenza, crescita, ma anche trepidazione, timore che ideali consolidati non possano esprimersi, realizzarsi. Ma il mio amore per questo luogo mi porta a sperare ancora:che vinca la conoscenza e che esso possa rivivere per tutti.

Sono tornata alla viva espressione di Is Loccis-Santus contemporaneo vale a dire al medau la cui ristrutturazione deve essere ultimata. Ho il piacere di parlare con uno degli appassionati fautori dell'impresa, giovane comproprietario degli immobili. E' entusiasta di concretizzare, anche se con molti e faticosi sforzi, un sogno che forse si porta dietro dalla sua infanzia.medau Gli si illumina il volto quando mi descrive, dai suoi ricordi, l'antica posizione degli elementi architettonici, la loro funzionalità : "guarda queste pietre, le dobbiamo rimettere in piedi, si perché io mi ricordo che da bambino fungevano da colonne per l'ombreggio in cannicciato qui in giardino" poi mi invita ad entrare in una casetta.medau E' semplicemente deliziosa con le travi in ginepro e le canne al soffitto, i cesti antichi alle pareti, il camino nella camera d'ingresso che funge da soggiorno e da centro da cui si diramano gli accessi alle stanze da letto e ai servizi. Mi incanto ad ammirare una vecchia ampolla in vetro verde, su di una credenza, con dentro un mazzo di fiori di campo sistemati in una meravigliosa e armonica composizione nel cromatismo e nelle altezze degli steli.
Dico con stupore: "Che bello!" E lui orgoglioso: "Ce lo ha lasciato un botanico Francese che ha alloggiato con sua moglie ed alcuni amici, sono ripartiti avantieri. Sono rimasti estasiati dalla nostra varietà floristica e dalla nostra primavera. Lui il botanico conosceva già tutto dai suoi studi, ogni singolo fiore, erba o pianta, lui li conosceva meglio di noi. Pensa che una sera ci ha offerto la sua cena a base di erbe.
Io e mia moglie, ti confesso, avevamo un po' di paura. Invece siamo stati benissimo e dobbiamo ringraziarlo perché se non fosse stato per lui noi non avremmo mai saputo che la salicornia presa nel bordo dei nostri stagni non solo è perfettamente commestibile, ma è anche buonissima, e non avremmo mai saputo che le foglie di un piccolo arbusto, comunissimo vicino al mare, il cui nome scientifico è halimium halimifolium, sono anch'esse commestibili e buonissime.
Vedi io credo che dobbiamo dare ospitalità a questo turismo culturale, non a quello rovinoso del mordi, sporca e fuggi. I sardi devono mettersi in testa di preservare il patrimonio di natura che ha la fortuna di avere in custodia, sia per i propri figli che per la gente buona e intelligente di tutto il mondo. Credo che chi non capisce ancora oggi che le battaglie politiche si giocheranno sul tema ambientale non può più capire niente e, mi amareggia dirlo, in Sardegna questa è la maggioranza purtroppo.
Qui, come ci dicono anche le testimonianze di un lontano passato, la gente si incontrava e si arricchiva dello scambio di esperienze ed era un grande dono reciproco che questo nostro sito favoriva. Questo voglio che sia ancora. E' un sogno? Forse, ma forse è anche una strada obbligata senza altre plausibili scelte".
Io non dico più niente, non ho parole, condivido tutto ciò che dice, so solo che ormai amerò per sempre questo luogo e chi lo onorerà. Tornerò spesso a sentire le immagini di quel sogno e a partecipare degli sviluppi del suo destino.

Lidia Flore



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