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Con questi versi voglio introdurvi alla conoscenza di una splendida persona, una ragazza di 29 anni che vive nella fascinazione delle alchimie cromatiche della natura. Veronica Usula, così si chiama, ama far esprimere, grazie al suo talento ed alla maestria delle sue mani, quegli infiniti, vibranti cromatismi che la natura custodisce e cela, per lo più, nei suoi elementi vegetali. Non è dato a chiunque poter svelare e ricreare quell’alchimia, ma solo a persone speciali che sappiano entrare in contatto intimo e diretto con gli elementi di natura, osservando e sperimentando con umiltà e passione. Il laboratorio di Veronica ha un nome strano, attinto dalla sua antica madre lingua di Sardegna ( Villacidro è la città dove vive e lavora) che però ci aiuta a capire questo suo rapporto privilegiato con la natura. S’iscusorgiu significa tesoro nascosto, luogo in cui si custodisce da tempi immemorabili qualcosa di prezioso e magico, qualcosa ai cui misteriosi poteri bisogna ammaestrarsi. Lei, quindi, nel suo laboratorio è come una fata a cui la natura ha consegnato, dopo anni di appassionata dedizione, fatta di approfonditi studi e dirette sperimentazioni, le infinite possibilità di un sapere ancestrale: i doni intimi e preziosi, dal mondo vegetale, per lo più, ma anche da quello animale e minerale, che aiutano e nobilitano l’uomo nella sua creatività e nei suoi prodotti. Ho qui con me un ricordo tangibile della mia visita affascinata a s’iscusorgiu di Veronica: una borsetta, una piccola borsetta da portare a tracollo, che mi incanta, è un oggetto su cui si verifica una sorta di sublimazione del suo carattere d’uso per acquisire un vero e solo carattere estetico.
La sua sacca è fatta in lana di pecora sarda del suo bel colore naturale e sopra ha tre fiori ricamati con fili di rafia, anch’essa naturale. Steli con foglie e corolle sono disposti in composizione di ordine crescente, una graziosa famigliola floreale la cui visione si staglia attraverso un caldo vello animale, e non si può non intravedere, attraverso la borsa, un gregge al pascolo in un campo fiorito. Ecco che l’oggetto mi veicola un messaggio: approcciare al pacifico connubio degli elementi di natura per riceverne l’importante valore estetico e morale, riparare con esso le brutture, le rovine, le distruzioni operate dalla società umana, spesso cieca, insensibile, e guidata da logiche di sfruttamento e rapina. La borsa è uno dei tantissimi “oggetti” o meglio creazioni che Veronica realizza soddisfacendo un suo bisogno di creare con le proprie mani qualsiasi prodotto d’uso che può contornare di bellezza le nostre giornate, i nostri ambienti, permettendole di esprimere, in ogni fase della realizzazione, dalla ideazione e disegno alla colorazione, tutta la sua fantasia. Per certi versi Veronica mi ricorda mia madre, e con lei tutte le donne sarde che per secoli e fino al secondo dopoguerra e quindi all’industrializzazione, hanno retto l’economia sarda con una vera e propria economia manifatturiera familiare.
Poi sono bastati circa 70 anni per smantellare completamente un’ economia e cancellare tutto il sapere ad essa collegato. Ed è così che Veronica ha dovuto fare uno sforzo notevole per riappropriarsi di un bagaglio di conoscenze andato perduto, per far emergere la sua personalità creativa dal vuoto di valori e dal degrado culturale conseguenti alla colonizzazione economica dell’intera regione. E così, mentre mia madre realizzava tutte quelle cose per necessità, la nostra giovane fata di Villacidro lo fa per ribellarsi all’omologazione, all’allontanamento del saper popolare operato dallo strapotere dell’industria e dei monopoli.
S’iscusorgiu, il laboratorio dell’incanto,
è situato in una zona antica di Villacidro, una zona
alta da dove ad est si domina tutta la vasta piana del Medio Campidano,
a nord le belle creste di granito rosato di Giarranas che affiancano il
monte Omu, a Sud il Monte Carmine
Una parte della città, quindi, abbracciata dalle montagne, che guarda a quelle cime e si affaccia alla vasta pianura sottostante. All’interno, in un percorso di quattro stanze, ci si può quasi stordire di bellezza. Lo sguardo in principio non sa dove soffermarsi dal richiamo di tante creazioni esposte e dai loro cromatismi: arazzi, manufatti in lana per abbigliamento, stuoie intessute di filati colorati con steli vegetali oppure con strisce di sughero, oggetti d’uso realizzati con feltro o con la rafia. Ma è poi sulle matronali presenze di due telai che si sofferma l’ammirazione. Il primo che si incontra è il più grande, in frassino (ollastu de frumini – pianta che cresce vicino ai rivoli e che ha un legno duro ma flessibile e che non si fende ), a quattro canne che Veronica usa per ottenere tele elaborate.
La quantità di canne di un telaio
antico indica la varietà e complessità dei tessuti che con essa si rendono
possibili. Le canne infatti servono a reggere gli insiemi di fili d’ordito
chiamati licci. I licci – che costituiscono, insieme alle asticelle verticali
infilate nella cassa battente dentro le quali è il pettine, la parte mobile
del telaio – sono costituiti da anelli di cotone annodati sulle canne
e formanti piccoli occhielli. In ognuno di questi occhielli passa un filo
di ordito, così che sollevando o abbassando i licci, grazie a dei tiranti
e pedali, chi tesse solleva in modo alternato un sistema di fili mentre
l’altro rimane abbassato. La
divisione dei fili che in un semplice telaio a due canne viene fatta tra
fili pari e dispari, con più canne è permessa in un modo più complesso
e quindi viene favorita una maggiore opportunità di resa nel tessuto per
quanto riguarda soprattutto la varietà e la densità di trama. Veronica
infatti ci dice che con questo telaio lei può tessere di tutto, qualsiasi
fibra, ed è essenziale per tessere
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