Tessere l'arcobaleno

Con questi versi voglio introdurvi alla conoscenza di una splendida persona, una ragazza di 29 anni che vive nella fascinazione delle alchimie cromatiche della natura. Veronica Usula, così si chiama, ama far esprimere, grazie al suo talento ed alla maestria delle sue mani, quegli infiniti, vibranti cromatismi che la natura custodisce e cela, per lo più, nei suoi elementi vegetali. Non è dato a chiunque poter svelare e ricreare quell’alchimia, ma solo a persone speciali che sappiano entrare in contatto intimo e diretto con gli elementi di natura, osservando e sperimentando con umiltà e passione. Il laboratorio di Veronica ha un nome strano, attinto dalla sua antica madre lingua di Sardegna ( Villacidro è la città dove vive e lavora) che però ci aiuta a capire questo suo rapporto privilegiato con la natura. S’iscusorgiu significa tesoro nascosto, luogo in cui si custodisce da tempi immemorabili qualcosa di prezioso e magico, qualcosa ai cui misteriosi poteri bisogna ammaestrarsi. Lei, quindi, nel suo laboratorio è come una fata a cui la natura ha consegnato, dopo anni di appassionata dedizione, fatta di approfonditi studi e dirette sperimentazioni, le infinite possibilità di un sapere ancestrale: i doni intimi e preziosi, dal mondo vegetale, per lo più, ma anche da quello animale e minerale, che aiutano e nobilitano l’uomo nella sua creatività e nei suoi prodotti. Ho qui con me un ricordo tangibile della mia visita affascinata a s’iscusorgiu di Veronica: una borsetta, una piccola borsetta da portare a tracollo, che mi incanta, è un oggetto su cui si verifica una sorta di sublimazione del suo carattere d’uso per acquisire un vero e solo carattere estetico.


Tessuti di pura natura

La sua sacca è fatta in lana di pecora sarda del suo bel colore naturale e sopra ha tre fiori ricamati con fili di rafia, anch’essa naturale. Steli con foglie e corolle sono disposti in composizione di ordine crescente, una graziosa famigliola floreale la cui visione si staglia attraverso un caldo vello animale, e non si può non intravedere, attraverso la borsa, un gregge al pascolo in un campo fiorito. Ecco che l’oggetto mi veicola un messaggio: approcciare al pacifico connubio degli elementi di natura per riceverne l’importante valore estetico e morale, riparare con esso le brutture, le rovine, le distruzioni operate dalla società umana, spesso cieca, insensibile, e guidata da logiche di sfruttamento e rapina. La borsa è uno dei tantissimi “oggetti” o meglio creazioni che Veronica realizza soddisfacendo un suo bisogno di creare con le proprie mani qualsiasi prodotto d’uso che può contornare di bellezza le nostre giornate, i nostri ambienti, permettendole di esprimere, in ogni fase della realizzazione, dalla ideazione e disegno alla colorazione, tutta la sua fantasia. Per certi versi Veronica mi ricorda mia madre, e con lei tutte le donne sarde che per secoli e fino al secondo dopoguerra e quindi all’industrializzazione, hanno retto l’economia sarda con una vera e propria economia manifatturiera familiare.

E' singolare come pochissima importanza e menzione sia stata data, dalla maggior parte degli accreditati studi di storia socio-economica della Sardegna, al settore del lavoro femminile legato ai tessuti e ricami che pure anche in tempi relativamente recenti ha prodotto esempi di estrema raffinatezza e preziosità e nonostante fosse conosciuto il dato di un censimento del 1886 : ben 19.336 telai in uso in tutta la Sardegna. Mi è capitato, ad esempio, di leggere un libro che tratta della storia dell'isola di S. Antioco e della sua geografia socio-economica. Ebbene, il libro del 1972 “l'isola di Sant'Antioco” sottotitolo “ricerche di geografia umana”, non par vero, scritto proprio da una donna (Margherita Zaccagnini) e per di più con la supervisione di accreditate docenze dell'Università di Cagliari, non fa una minima menzione al rilevante lavoro tessile delle donne, che tanta importanza ha avuto nell'isola sulcitana. Per fortuna avevo fatto precedentemente un'altra lettura ( si tratta del viaggio di Vittorio Alinari – fotografo ed editore – commissionato dai Savoia nel 1914 per illustrare la realtà sarda ) in cui, proprio su Sant'Antioco, si descrivevano, con molto stupore, le meraviglie delle produzioni tessili femminili, tra cui il bisso marino, e si dava notizia di ben 200 telai in produzione nel solo paese di S.Antioco. E così ho potuto farmi una mia idea di una più vera analisi socio-economica dell'isola. La stessa cosa potrebbe dirsi di Villacridro e di tantissimi altri paesi in cui vere fonti documentarie collocano l'opera di centinaia di telai


Mia madre realizzava coperte, materassi di crine vegetale, cuscini di lana, scarpe di feltro e bambole per noi bambini e tantissime altre cose, e tutte le fasi produttive passavano nelle sue mani. Quando mia madre era piccola, in ogni paese della Sardegna erano centinaia i telai funzionanti. In tutta la regione non vi era una produzione tessile industriale, ma in ogni casa c’era una industria familiare, dove si produceva non solo tutto il tessile che serviva ma anche eccedenze che venivano scambiate con altri prodotti o che si esportavano.

Poi sono bastati circa 70 anni per smantellare completamente un’ economia e cancellare tutto il sapere ad essa collegato. Ed è così che Veronica ha dovuto fare uno sforzo notevole per riappropriarsi di un bagaglio di conoscenze andato perduto, per far emergere la sua personalità creativa dal vuoto di valori e dal degrado culturale conseguenti alla colonizzazione economica dell’intera regione. E così, mentre mia madre realizzava tutte quelle cose per necessità, la nostra giovane fata di Villacidro lo fa per ribellarsi all’omologazione, all’allontanamento del saper popolare operato dallo strapotere dell’industria e dei monopoli.

S’iscusorgiu, il laboratorio dell’incanto, è situato in una zona antica di Villacidro, una zona alta da dove ad est si domina tutta la vasta piana del Medio Campidano, a nord le belle creste di granito rosato di Giarranas che affiancano il monte Omu, a Sud il Monte Carmine
( “Su Cramu” ), a ovest il monte Cuccur’ ‘e Frissa ( frissa è un’ erba tintoria, l’Inula Viscosa, ed il monte, 924 m. s/l/m, è denominato quindi: cima dell’Inula ).

Una parte della città, quindi, abbracciata dalle montagne, che guarda a quelle cime e si affaccia alla vasta pianura sottostante. All’interno, in un percorso di quattro stanze, ci si può quasi stordire di bellezza. Lo sguardo in principio non sa dove soffermarsi dal richiamo di tante creazioni esposte e dai loro cromatismi: arazzi, manufatti in lana per abbigliamento, stuoie intessute di filati colorati con steli vegetali oppure con strisce di sughero, oggetti d’uso realizzati con feltro o con la rafia. Ma è poi sulle matronali presenze di due telai che si sofferma l’ammirazione. Il primo che si incontra è il più grande, in frassino (ollastu de frumini – pianta che cresce vicino ai rivoli e che ha un legno duro ma flessibile e che non si fende ), a quattro canne che Veronica usa per ottenere tele elaborate.

I preziosi fili della tradizione

La quantità di canne di un telaio antico indica la varietà e complessità dei tessuti che con essa si rendono possibili. Le canne infatti servono a reggere gli insiemi di fili d’ordito chiamati licci. I licci – che costituiscono, insieme alle asticelle verticali infilate nella cassa battente dentro le quali è il pettine, la parte mobile del telaio – sono costituiti da anelli di cotone annodati sulle canne e formanti piccoli occhielli. In ognuno di questi occhielli passa un filo di ordito, così che sollevando o abbassando i licci, grazie a dei tiranti e pedali, chi tesse solleva in modo alternato un sistema di fili mentre l’altro rimane abbassato. La divisione dei fili che in un semplice telaio a due canne viene fatta tra fili pari e dispari, con più canne è permessa in un modo più complesso e quindi viene favorita una maggiore opportunità di resa nel tessuto per quanto riguarda soprattutto la varietà e la densità di trama. Veronica infatti ci dice che con questo telaio lei può tessere di tutto, qualsiasi fibra, ed è essenziale per tessere Approfondimenti l'orbace

 

L’ orbace è il più antico  tessuto sardo che si conosca, ce ne dà notizia Tito Livio annotando che se ne produceva in grandi quantità già nel 206 a.C. ed è stato anche il tessuto della tradizione sarda più usato fino all’inizio del 1900. Esso era di qualità e fattura diverse a seconda della categorie sociali a cui era destinato e al vario uso , da su saccu de coberri (sacco per coprire) all’abbigliamento del costume tradizionale. Dopo la tessitura l’orbace veniva  passato al bagno in  vasche con acqua corrente (anticamente ciò avveniva dentro dei grossi tronchi concavi di leccio)  e pestato a lungo (anticamente con i piedi ma poi con dei mazzuoli di legno azionati da ruote  idrauliche lungo i corsi dei fiumi – famose le gualchiere di Gavoi, Tiana, Santulussurgiu, Fonni) per infeltrirsi e diventare del tutto impermeabile. Poi per ultimo veniva tinto, e ciò avveniva usando le colorazioni naturali più facilmente reperibili e più efficaci per ottenere il marrone, il nero, il rosso e il giallo ed era un lavoro che richiedeva parecchie ore: per ottenere un nero brillante, ad esempio, bisognava far bollire vari componenti vegetali nel paiolo di rame per parecchie ore in fasi successive, togliendo di volta in volta con un tridente di legno i componenti dall’acqua ed aggiungendone di altri, si passava dalla Daphne gnidium (truvusciu), all’ haematoxylon campechianum (iscabècciu), dal vetriolo (idriòlu) ai malli freschi di noce e alla scorza di melagrana.  Per la raccolta delle erbe tintorie praticata per lo più dagli uomini, che le trasportavano poi a dorso dei cavalli o dei muli, bisognava osservare che la luna fosse o calante o crescente ma mai piena.

 Sempre più in disuso dagli anni Cinquanta la  produzione dell’orbace oggi è quasi completamente cessata. Chiudi
perché permette ai fili di lana ( di ordito e di trama, giacché l’orbace è l’antico tessuto sardo per eccellenza realizzato totalmente in lana di pecora) di intrecciarsi in modo più fitto e in un effetto spigato che risulta poi importantissimo per la sua funzionalità. Infatti né acqua piovana e né umidità riescono a penetrare in un telo di orbace grazie proprio alla sua struttura di trama. Veronica è entusiasta dell’orbace, con la feltratura le permette di realizzare una vasta gamma di creazioni e oggetti artistici, perfino petali di grandi fiori che nelle loro aperte corolle danno un tocco di allegra fertilità all’habitat del suo laboratorio.
Il secondo telaio è a due canne ed è la riproduzione fedele di un telaio del 1400. Veronica ne ha tinto interamente il legno con il colorante tratto dalle bacche di mirto e lo utilizza magistralmente per comporre arazzi. Ricerche approfondite sia sui libri specializzati e sia su esperienze dirette nei musei della Sardegna l’hanno introdotta intimamente nel mondo della simbologia del disegno dell’ Approfondimenti arazzo .
“Devo comporre l’arazzo ogni qual volta sono inquieta verso qualcosa o qualcuno, è come se una forza vitale, fatta di carica espressiva, mi si imponesse di emergere, di sprigionarsi, e così vengono fuori i miei disegni, l’arcobaleno dei miei colori. Tessere arazzo è tessere il mio percorso di vita in cui i simboli della mia memoria rinascono con un loro senso attualizzato e ridisegnano nuove ragioni alla mia esperienza. Il primo che ho realizzato e' un piccolo Arazzo che raffigura un Guerriero e simboleggia il bisogno di tutti i popoli di difendere il proprio territorio. Il secondo raffigura l'Albero della Vita tradizionale che ho tessuto in un momento di rabbia nei confronti di tutti quei "santi uomini" che, nella storia passata e recente, in nome di un Dio, hanno imposto la loro oppressione e il loro violento dominio nei confronti di tante donne ree di voler vivere nella libertà e nell’ intelligenza e nei confronti di chi si opponeva alla cancellazione delle identità culturali e spirituali delle etnie "più deboli" ma sopratutto più libere. Ho tessuto quindi il mio Albero della Vita, con l'uomo, la donna, gli uccelli, i fiori, le lucertole il sole la luna, la mia stella e le mie iniziali. Il primo "vero" Arazzo (1,10 cm per 2,00 cm) però nasce nel 2005 nel mio telaio tradizionale: è un volo di uccelli (per l’ esatezza 50) simbolo di prosperità e speranza: esso è la risposta creativa al periodo più buio, privo di colori e violento della mia vita, e forse per questo motivo credo che sia l'opera più completa e profonda del mio percorso. Ora sto tessendo il Ballo, simbolo di comunione e di società, una società sarda ricca di risorse, potenzialità represse, voglia e bisogno impellente di partecipare a costruire un 'altra Sardegna più legata alla Memoria ma anche aperta ad un futuro sostenibile e compatibile con le morfologie e i caratteri del nostro territorio”.
           Lei si riempie di gioia nel trasmetterci le antiche e pregnanti significanze di ogni particolare delle forme compositive dell’arazzo sardo. Sul monitor del suo computer ( una vera fata di oggi non può non conoscere e padroneggiare le mirabilie dell’informatica) mi mostra le fotografie a scansione di vecchi e rovinati arazzi - che molto probabilmente erano stati dei copricassa - a cui poi con un software andrà a svelare e ricostruire con matematica precisione ogni punto mancante al suo disegno.
Il restauro per lei è importante e cimentarsi con passione in un mestiere che in Sardegna è quasi del tutto assente è una sfida e una risposta a chi è pronto a svendere il nostro patrimonio culturale e a chi non fa niente per salvaguardarne e tramandarne la preziosa particolarità. Lei non è d'accordo con chi ha scritto (Enrico Curreli e Paolo Loddo in “Il lavoro dei sardi”Ed. Gallizzi): “il messaggio iconografico racchiuso in ogni elaborato, espressione anacronistica degli aspetti e dei valori della cultura popolare, diventa sempre meno significativo sia per l'artigiano che per il destinatario, tanto che l'elemento figurativo ha ormai perso i suoi contenuti simbolici”. Per Veronica chi disprezza i valori della nostra cultura popolare non può progettare nessun vero sviluppo e nessun benessere per noi. Quegli aspetti e quei valori sono invece la nostra salvezza, la genuina particolarità che, se libera di esprimersi con dignità, tante positive intelligenze può sprigionare e fruttare da essere d'esempio per il mondo. Il tentativo, operato dagli anni cinquanta con Eugenio Tavolara, di adattare i moduli compositivi al gusto contemporaneo sono falliti proprio perché non si può spegnere l'anima di un'arte, non si possono cancellare quei tanto deprezzati aspetti e valori della cultura popolare e sostituirli con qualcosa di completamente estraneo. Si può e si deve sviluppare e modificare il valore d'uso dei prodotti dell'artigianato tessile, questo si. Come è già avvenuto in passato (il copricassa che diventa arazzo, la coperta che diventa tappeto ) ci sarà un'evoluzione in questo perché il nostro vivere e le nostre esigenze cambiano, ma i simboli della nostra anima, della nostra antica cultura non possono che obbedire alle linfe delle nostre radici. Ecco perché lei recupera i disegni antichi, ecco perché a lei giungono antiche gutturadas che adornavano i buoi nell'accompagnare in processione la reliquia di S.Efisio, e alle sue mani vengono consegnati antichi scialli del costume tradizionale che hanno perduto i propri fili colorati. Restaurare i tessuti e i ricami antichi per Veronica vuol dire ridare luce e colore alla memoria, perciò toccare, studiare e rianimare un tessuto è entrare in contatto diretto con la memoria storica della sua terra.


 

Soffermandosi su di un telo del XIX secolo, dove vi sono colombelle sistemate ai lati dei piedi di ogni singola figura di donna, nel tradizionale disegno del ballo tondo, non può non pensare al suo importante significato di sacra fecondità e di pace attribuito alla figura femminile che la comunità sarda ancora in quel tempo esprimeva nelle sue arti.

Una terra generosa

Sulla linea di soffitto, che divide una parte del laboratorio da un’altra, c’è un filo a cui sono legati dei mazzi di piante appesi con parti floreali ed apicali a testa in giù: Malva, Iperico, Lavanda, Elicriso, Basilisco ed Inula Viscosa. Lei mi spiega che la maggior parte di queste non hanno solo proprietà tintorie ma anche curative, e le raccoglie infatti anche per questo, per farsi da sé i rimedi medicinali. Ma ci tiene a precisarmi che questa conoscenza l’avevano anche le antiche donne sarde perché usavano nella tintura dei tessuti , guarda caso, proprio quegli elementi botanici che rilasciavano i loro principi positivi per il tessuto e quindi per l’uomo, ad esempio la Daphne gnidium veniva usata soprattutto per azzerare sulla lana la presenza di microrganismi o germi patogeni grazie alle sue proprietà antisettiche.
Così mi rivela che, come avveniva nei tempi antichi e fino all’industrializzazione, lei procura dalle sue montagne antinfiammatori, decongestionanti, lenitivi e protettivi in unguenti, oli, infusi ecc..

 

Il percorso a ritroso verso una pratica e un’arte antica, mi confida, ha come principio una semplice passione naturalistica, nata dalle passeggiate che da piccola faceva coi genitori tra le loro montagne, che saziava curiosando tra fiori, radici e bacche. Esso si sviluppa poi però con la fatica degli studi di autodidatta e delle continue battaglie per resistere ad un mondo ostile verso tutto ciò che è spontaneo e non omologabile.

 

 

 

 

La fucina dei cento colori

Veronica, che sperimenta da 6 anni la tintura vegetale, è riuscita ad ottenere circa novanta colori riuscendo così ad avere la gamma completa della colorazione. Partendo da ogni parte dell’organismo vegetale ( radice, corteccia, foglia, fiore, stami, frutto, buccia ) e, moltiplicando per l’infinita varierà delle erbe e piante di quel giardino selvatico sui crinali attorno a Villacidro, si può ben immaginare la grande varietà di colori a lei possibili. E nel suo laboratorio molti cesti contengono decine e decine di matasse di colori bellissimi.
La decisione di usare solo piante spontanee del suo territorio nasce da un’idea politica di Approfondimenti autosviluppo e di uso delle potenzialità del territorio per arrivare ad ottenere dalla natura tutto ciò che serve ad esprimere la sua arte. Così nell’arte della tintura, nelle numerose manifestazioni e vetrine del settore a cui è stata invitata sia in Italia che all’estero,

A Lauris in Provenza dove un’associazione ha creato un “giardino tintorio” ed organizza un incontro a cui partecipano tintori da tutta Europa;
Al Villaggio Leumann di Torino la manifestazione annuale che raccoglie il meglio delle tradizioni tessili da tutto il mondo;
Alla manifestazione annuale di MilanoFailacosagiusta”;
Alla “festa della ginestra di Riace” dove la percezione diretta della lotta contro una politica corrotta rende più convinti verso un’autosviluppo equo e sostenibile;
A Sardagna in provincia di Trento per la biennale “Matriarcato in montagna” con invitate da tutto il mondo.

lei ha saputo esprimere una radicale e significativa differenza fra tutti gli altri che utilizzavano polveri di erbe prodotte e fatte arrivare da coltivazioni industriali, proponendo invece la sua sana originalità a far esprimere nella sua arte la natura viva della sua terra , con la raccolta e l’utilizzo nella loro stagione propizia dei principi attivi spontanei.

         Il colore lei lo percepisce come espressione dell’anima e non potrebbe provare l’emozione che prova se non tingesse con le erbe vive e spontanee immergendosi nel rito delle potenzialità umorali della natura e diventando con essa un’unica cosa in un bagno mutante e magico, pieno di libertà.
La tintura delle lane è la fase più appassionante ma anche la più faticosa di tutta la filiera.Quando la lana da bianca prende i più svariati colori è lì che lei si sente fusa con la forza intima della natura. In quei momenti si sente matura perché le sue mani compiono gesti arcaici e rivivono quelle donne che tingevano e tessevano per bisogno e in qualche modo sente così di ripristinare la memoria e le fatiche di tutte quelle donne.
L’iniziazione è avvenuta con la tintura a caldo, la tecnica tradizionale delle zone interne della Sardegna, e con l'utilizzo del fissante di base che è il sale. Poi in cinque anni di sperimentazione e studi è riuscita ad utilizzare sette fissatori e quattro tecniche di tintura.

Sino a circa quarant'anni fa' la tintura a Villacidro era una pratica consueta: veniva utilizzata principalmente la Daphne Gnidium che, non solo tingeva la lana, ma la disinfettava e la conservava. La Daphne gnidium ( truvùsciu, truiscu, erimèri ) è un arbusto sempreverde della macchia mediterranea, ha un'altezza che varia da 40 a 120 cm. E' forse l'essenza vegetale più sfruttata in Sardegna per le tinture delle fibre e dei tessuti. Se ne usano le foglie o i rami, a seconda del periodo in cui si effettua la raccolta e a seconda del colore che si vuole ottenere, la gamma ricavabile va dal giallo al marrone e dal verde al nero.

E’ questa varietà che le permette di ottenere tanti colori.

Far viaggiare i colori

La nostra giovane fata di S’iscusorgiu utilizza le parti di circa trenta piante. L’ Alaterno(su tasuru), la Robia(s'arrubia), il Noce(sa nuxi), il Leccio(s'ilixi), la Malva(sa narbedda) sono solo alcune delle piante che ha studiato e dalle quali estrae i colori. Ultimamente trae molta soddisfazione dalla sperimentazione sull’uva turca da cui riesce ad estrarre dei viola e dei granati veramente luminosi e caldi.

La sua sperimentazione del colore ora comincia a coinvolgere anche alcuni tipi di funghi dall'elevato potere tintorio ed essa non è più rivolta solo alle fibre e i tessuti ma anche al legno e al sughero e alla produzione di inchiostri da usare sulla carta.

L'Uva turca o Fitolacca (Phytolacca decandra) e in sardo grana, axina de margianis (uva delle volpi) è una pianta bassa con piccoli grappoli di bacche rosse. Originaria dell'America Settentrionale, importata e coltivata in Sardegna nel 1700 per il colorante rosso usato soprattutto per tingere le ostie chiudi-lettera, si è poi inselvatichita.

Infatti su un suo tavolo nel laboratorio trovo pitture su carta, sono lavori, mi dice, realizzati dai bambini e dagli adolescenti sotto la sua guida, piccole creazioni semplici dall'impatto immediato. Veronica trova che sia importante per loro trovare dei percorsi, oltre che nelle aule scolastiche, anche nei laboratori di strada, sulle piazze, all'aperto, per metterli a contatto con l'aspetto non solo creativo ed artistico ma anche sociale ed aggregativo che la manipolazione dei materiali fa emergere. La lavorazione del feltro, la tessitura, la tintura vegetale per loro sono un fatto nuovo e fungono da stimolo per entrare nel mondo delle piccole attività creative e artigianali e dell'autoproduzione. Durante queste attività lei racconta ai bambini delle storie e delle leggende legate alla cultura popolare, stimolando in loro l'immaginazione e la libertà.
Mi rimane ancora viva l’immagine degli ambienti decorosi, intimi e belli della sua dimora laboratorio: la cucina con il camino e gli attrezzi per la tintura, le due stanze per gli ospiti (che qui possono soggiornare come in altre dimore del circuito Domus Amigas gestito dal C.S.A.) che vogliono partecipare ai laboratori di Veronica incantati dalla sua solarità e dal suo bagaglio di sapere. Ambienti arredati con il gusto della cura dei particolari, che esprimono creatività, semplicità ed armonica bellezza. Delle bellissime maschere di legno, realizzate da Antonello, il suo compagno, che l'ha affiancata nel progetto e nell’allestimento di S’iscusorgiu, sono appese in alcune pareti.
La storia di queste maschere è singolare: Antonello mi ha raccontato che il loro legno proviene da un noce di Villacidro che, ergendosi nel territorio lambito dal fiume Leni e destinato ad essere sommerso dalle sue acque per la costruzione dell’invaso di Monti Mannu, fu tagliato dal padrone del terreno ed il suo legno donato al padre di Antonello. Lui in qualche modo fu impressionato da questo destino acquatico assegnato al maestoso noce, così che, intagliandolo, la sua fantasia volò all’antica mitologia dell’acqua e alla civiltà Fenicia, che molto ha espresso in onore e devozione all’acqua e al mare. Le maschere di quel noce sono raffigurazioni di Eshmun (il dio guaritore fenicio), di Ba’al ( “Signore” e dio della tempesta) e di Ba’alat (“Signora”) raffigurati dal leone e dalla leonessa di Tiro, di Baal Safem (il dio protettore dei marinai), ed infine una piastra in legno con simboli astrologici, usata dai fenici nelle processioni cittadine per le festività legate ai culti, che duravano parecchi giorni.
Antonello è un esperto conoscitore del legno, e dei legni di Sardegna in particolare, con i quali crea tutta quella oggettistica utile a Veronica per le produzioni tessili dei laboratori: fusi, uncinetti di legno con i porta-uncinetti in canna, ferri da maglia, aghi per la lana, spole, piccoli telai, etc…

Come avete potuto notare, alla fine di questo incontro, l’antro nascosto dove si celano e custodiscono i tesori, s’iscusorgiu, non è un qualcosa di angusto ed oscuro ma è un luogo tra i più solari ed aperti che si possa immaginare perché si apre alla conoscenza e alla sua infinita ricchezza. Come percorso per conoscere, quindi, e per conoscersi, serve ad ognuno di noi la visita a Veronica Usula, al suo magico laboratorio e alla sua importante esperienza creativa . Alla fine della mia visita, con un entusiasmo liberatorio, mi riferisce di un importante invito ricevuto nell’ultima rassegna del giardino tintorio di Lauris in Provenza: è stata invitata dalle rappresentanti indiane, che fanno parte di un’associazione che si occupa di mantenere viva la cultura tintoria in India, a recarsi in India in occasione del loro incontro mondiale dei tintori. Ma non c’era bisogno del sostegno di questa notizia per la mia fondata intuizione che il messaggio di questo percorso viaggerà per il mondo, lo sento, porterà Veronica fuori dalla sua isola ad arricchirsi di altre grandi realtà ed ad arricchire anche il mondo di una nuova, sconosciuta, giovane Sardegna.

 

Aver recuperato l'importanza della tradizione tessile sarda e della sua custodia non vuol dire infatti per lei non avere l'esigenza del confronto e del dialogo delle diverse culture e delle diverse arti. Anzi al contrario lei vuole intraprendere percorsi sempre nuovi di conoscenza che le favoriscano più ampie possibilità creative. E' così che nell'estate 2006 Veronica si avvicina ad una nuova tecnica che le apre nuove possibilità interessanti per la tessitura dell'arazzo. Maestri in questo le sono l'artista olandese Maria Theresia Van Der Pol e suo marito, il tessitore Francesco Rovacchi. Da loro apprende la possibilità di usare per l'arazzo fili verticali nudi, privi della vestizione della trama, che tesi creano una trasparenza ed effetti di profondità e di luce aggiungendo armonia al disegno ed originali e piacevoli sensazioni prospettiche. Veronica capisce subito già dai primi risultati della sperimentazione di questa tecnica che in questo modo le sue lane colorate possono avere sull'arazzo anche un effetto di movimento rendendo una impressionante vitalità a qualsiasi oggetto del disegno.

Veronica Usula
cell. 33 83 20 31 07
siscusorgiu@hotmail.it

Espone presto uno dei suoi primi lavori a filo disgiunto. Ad Orani nella tre giorni (22/23/24 Settembre) della manifestazione Cortes Apertas, vengono esposti inediti del pittore Mario Delitala e Veronica, già invitata a creare una sua opera ispirata ad un quadro del grande maestro, espone il suo arazzo, la sua interpretazione tessile dell'acquarello "grani sul campidano". Espone anche "la mia Africa" un altro suo arazzo a filo disgiunto dove un sole color ocra è sospeso sopra la distesa di nudi dossi sui fili dell'ordito che disgiunti danno un cielo immenso e diafano e dove pregevolissimo è l'effetto della tramatura iniziale alla base dell'arazzo e quella finale di chiusura in cui Veronica si diverte ad abbinare la simbologia dei segni della antica tradizione sarda.

 

Testo: Lidia Flore
Fotografia: Mario Cabriolu - Daniel Cointe - Antonello Muscas
Registrazione suoni: Romeo Scaccia


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